La vita è altrove

Avrei voluto scrivere di come la gente si stia stancando dei soliti teatrini che si ripetono con cadenza annuale in quel di via Turati, e di come sia la pazienza ad essere in esaurimento, e non l’amore, ma ne hanno già parlato esaustivamente Gimbal  e MasterOfPuppets.

Avrei voluto scrivere un omaggio ad un grandissimo giocatore, sangue nobile di stirpe rossonera, figlio di un ordine dinastico antico ed ereditario della fascia da capitano degli ultimi anni, ma l’ottimo Don ha già tessuto le lodi al biondo Massimo, vittima silenziosa di carnefici impugnanti l’arma della calcolatrice.

Avrei voluto scrivere di come il calciomercato rispetti sempre copioni ben precisi, di come il luogo comune del “Tutto può succedere” sia solo lì a testimoniare una povertà di argomentazioni/idee/programmazione, e di come la gente continui ad abbeverarsi d’acqua sgorgante da fonti riciclate, ma il tetesko altravita è arrivato prima del sottoscritto.

E poi la vita fa già schifo di suo, perché farsi avvelenare il sangue da questioni di calcio? Perché arrabbiarsi per sei minuti capitati per caso nell’istante sbagliato 5 o 10 o 100 anni fa come se stesse succedendo ora, proprio ora? Perché commuoversi davanti a un monitor riguardando le immagini, chessò io, di Ambrosini che esulta fiero e col petto in fuori sotto la curva? Perché sentire un brivido lunga la spina dorsale nel ricordare l’ingresso in campo di Gennaro Ivan e realizzando che quella precisa corsa, quell’esatta consuetudine scolpita nella memoria, non torneranno più?

Siamo tifosi tranciati a metà, bimbi che cercano di giocare con una mano d’adulto puntata al viso, a minacciare un ceffone che da un momento all’altro arriverà, senza preavviso. Siamo i liberi torturati che si riciclano a ragionieri, procuratori, arbitri, finanziatori, ds e presidenti, senza che le persone che gestiscono il giocattolone riconoscano a pieno la potenza delle nostre passioni. Non siamo quelli che vanno allo stadio per urlare e insultare, per sfogare le proprie insoddisfazioni sessuali o le inferiorità quotidiane, proprio no. Piuttosto siamo quelli che cercano di nascondere le lacrime davanti ai conoscenti alle partite di addio di vecchi e nuovi beniamini (Sandro, Rino, Ale, Pippo: always proud of you).

Il calcio senza il lato umano diventa puro esercizio stilistico, gelido movimento di ingranaggi ordinati e coordinati. Non lo voglio un calcio senza l’ultimo saluto. Non esigo sogni grandi, ma sento la necessità di averne almeno di piccoli. Odio i restyling: non toccatemi lo stemma! Pretendo sincerità dalle persone che sostengo e che mi rappresentano. Perché sia chiaro: il mio Milan è MIO, indipendentemente dai presidenti, dirigenti e giocatori che si succederanno.

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