Tanto tuonò che piovve.
Non solo a Casa Milan, ma soprattutto sui “social”, che rendono di fatto la socializzazione aria fritta, poiché non esiste incontro di occhi o rumore di parole ma solo dita battenti in fretta e furia su tasti, in questo caso alquanto dolenti.
Donnarumma ha detto no, abbasso Donnarumma. Ma il frastuono é stato talmente fragoroso che sono stato assalito dal consueto impulso di fermarmi a ragionare, e non a insultare deliberatamente, poiché di carne al fuoco questa vicenda ne mette parecchia.
Vado per punti:
RAIOLA: non ha un passato calcistico, né da allenatore né da giocatore, è un puro affarista. Come tanti del resto. Eppure commercia in giocatori. “Non so se Ibrahimovic resterà”, “Donnarumma è un quadro da cento milioni”, mine accese dal Mino che poi si sono rivelate autentiche bombe. Ora, che il personaggio sia discutibile è fuor di dubbio, che abbia troppo potere anche, ma se è abile nel destreggiare situazioni, a infinocchiare dirigenti e a spostare giocatori facendo lievitare il suo conto in banca, dobbiamo forse ricoprirlo di ridicolo? Se si è arrangiato passando da ristoratore a ricco manager, è forse una colpa? Pensate forse che i sentimenti contino di più? Ci illudiamo che il suo interesse sia differente da un tornaconto personale?
Ho sentito e letto di molti tifosi in questi giorni attratti dal peccaminoso pensiero di riprendere Ibrahimovic. Tralasciando l’assurdità della cosa, chi è il procuratore di Zlatan? Momentaneamente mi sfugge. Santo quando ti porta lo svedese, peccatore quando allontana Donnarumma?
LA DIRIGENZA: ben poche colpe. L’espressione di Fassone davanti ai microfoni parlava da sé. È l’unica componente del mondo Milan ad averci messo la faccia, ed è sacrosanto pretendere di non piegarsi eccessivamente al volere di un diciottenne e di chi lo accompagna.
TRIBUNA: Altra pappagallesca ripetizione di un oceano di tifosi. Tra il provvedimento punitivo e il ragionamento pratico, scelgo sempre il secondo. Tenere un giocatore che sa già di andare via, può giovare a un ambiente pronto a ricominciare a camminare dopo cinque o dieci anni di tormenti? Sicuri che le telecamere saranno puntate sulla squadra o più probabile che indugino in tribuna? Senza considerare il grande smacco di perderlo a costo zero tra un anno. Dove sono tutti questi sceicchi pieni di pecunia? Si facciano avanti, è il loro momento anche se forse pagheremo la svalutazione pre-scadenza. La rinascita del Milan, che è la cosa che ci preme di più, non deve essere ostaggio di zavorre.
PLIZZARI: Vi chiederete, che c’entra? Ma l’ho visto nominato talmente tante volte su quei “social” poco social, che non ho resistito a dedicargli due righe. Nel mio caso, qualche riscaldamento a San Siro non può essere sufficiente per delinearne il profilo. Inoltre, nello sport, sappiamo che certi campioni nascono una volta ogni trent’anni. Se sono merce rara, ci sarà un motivo, difficile che si ripetano consecutivamente. La sua improvvisa popolarità è più un emozionale conseguenza a quanto accaduto in questi giorni, che una reale conoscenza delle sue potenzialità. Per cui, diamine: lasciamolo in pace. O siamo tutti talent-scout? Anche Pagotto parò due rigori nel 1996 con l’under 21, nella finale europea contro la Spagna di un baby Raul. Ma non mi risulta sia divenuto un altro Buffon…
E poi i tifosi. Noi. Che non abbiamo da scegliere tra quattro e otto milioni, che non abbiamo agenti alle spalle, che non contiamo nulla per il calcio moderno (siamo illusi di contare, ma non serviamo, fidatevi).
Io, da abbonato al primo blu, salivo in transenna ogni domenica per incitare Donnarumma e salutarlo al suo ingresso in campo per il riscaldamento. Vedevo gente battere sul vetro, chiamare a gran voce “Gigio! Gigio!”. A me bastava mostrare un pugno chiuso, un incitamento, un segno di sostegno. Sapendo bene che a 18 anni, nel “corporate football” odierno, era difficile pensare di vedere un ragazzino vestire per vent’anni la stessa maglia, anche se non immaginavo un finale così. Incitare e sperare che il giocatore faccia bene, è il minimo. Elevarlo a idolo e piangere per un tradimento, è qualcosa che non dovrebbe andare più di moda. Eppure ci caschiamo ancora. Cessioni necessarie (Kakà e Thiago Silva), bambini che devono imparare l’inglese (Shevchenko… una scuola internazionale evidentemente a Milano non c’era), allenatori passati sull’altra sponda per trenta denari, sono tutti contorni, veritieri in parte. Lo so che le dinamiche sono state differenti, ma la realtà è che sono tutti mercenari, chi più, chi meno. E fra due o tre anni saremo ancora li, a innamorarci di qualcun altro e poi a strepitare di dolore se verremo traditi. Io personalmente non mi stupisco più di nulla, e dovremmo raggiungere tutti questo limbo di pace, lasciando solo ai bambini i sogni, ed è per loro che sono certamente più affranto. Dovremmo capire che conta la maglia: lo vedo spesso scritto, ma poco applicato.
Tifoso rossonero, dammi retta, inutile e infantile versare lacrime per chi la veste e poi se ne disfa come fosse uno cencio mal ridotto.
Or dunque, una volta per tutte, mettiamo il nostro nome su quella maglia: siamo le uniche persone che con il Milan hanno firmato un contratto a vita.
Stefano Ravaglia
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