A: Arrigo.
Ci voleva del coraggio nell’ affidare la scalata al mondo, ma ancor prima al calcio italiano, a quell’ ometto spiritato che il tradizionalismo catenacciaro del pallone nostrano lo detestava, cordialmente ricambiato peraltro. Tanti vecchi giornalisti, alfieri del brerismo per età e posa più che per scritti particolarmente interessanti, quando parlano del suo ciclo adorano sottolineare gli scudetti persi. L’ Equipe scrisse che il calcio dopo il Milan, dopo quel Milan, non fu più lo stesso. Per una volta tendo a dar ragione ai francesi
B: Baresi.
Impensabile oggi vedere il miglior libero del mondo languire a 26 anni in un club dal piccolo cabotaggio sportivo e dal destino societario oscuro come Franz in quel 1986. Ogni trofeo che ha alzato nei dieci anni successivi ha urlato al mondo quanto avesse avuto ragione a considerare ancora sensate nei gaudenti anni ’80 parole quali amore o fede.
C: Carletto.
Quando tutti lo definiscono un calciatore finito per le sue ginocchia, Berlusconi lo ingaggia e con quella maglia vince due Coppe dei Campioni. Quando tutti lo ritengono un perdente come allenatore, Berlusconi lo ingaggia e su quella panca vince altre due Coppe dei Campioni. Potete ben comprendere come anche gli ultimi problematici anni in panchina da noi siano stati digeriti senza problemi alla luce di una simile storia, una storia che può valere pure una settimana di teatrino madrileno per fingere la speranza di un suo ritorno.
D: Desailly.
Probabilmente Silvio la pensava come Cruyff su cosa comunicasse l’ ingaggio di uno così, per di più da schierare a centrocampo. Per sua fortuna era l’ epoca in cui i meriti preferiva prenderseli a cose fatte e non intervenire prima. Il martello di Accra piantò il quarto chiodo nella bara del Barça la stessa sera in cui il suo primo governo ottenne la fiducia.
E: Europa.
Ora i grandi gruppi imprenditoriali e finanziari si scannano per poter piazzare una piccola pezza visibile sul campo o al bordo dello stesso in quella risposta europea opulenta all’ NBA che è la Champions League, hanno capito quale straordinario veicolo possa essere per la visibilità il calcio internazionale. Anche lui lo aveva capito, trent’ anni fa però.
F: Fabio, Capello ovviamente.
Uno che per passò mesi a difendere la sua nascente carriera da dirigente prima di cedere alle lusinghe di Berlusconi che lo voleva allenatore. La parabola di Silvio in rossonero può essere perfettamente descritta decollando da una simile intuizione per atterrare alle ultime: Inzaghi e Brocchi.
G: Galliani.
L’ uomo più discusso sin dai tempi della notte di Marsiglia, una figura che gli animi li ha divisi per davvero. Top: il Milan del ciclo ancelottiano nacque anche da alcune sue grandi intuizioni, Seedorf e Pirlo a certe condizioni su tutte. Flop: gli ultimi anni in cui da società all’ avanguardia per un ventennio anche per meriti suoi, ha fatto piombare il club indietro di secoli, imprigionato in logiche non del tutto chiare (diciamo così…).
H: Hateley.
E che c’ entra? C’entra, c’entra. Quel volo nel derby è stato anello di congiunzione tra il tramonto riveriano e gli anni della rinascita ad opera di Berlusconi, unica gioia di anni difficili che ha aiutato tanti cinquantenni di adesso a non impazzire del tutto.
I: Inter.
Innumerevoli e interessanti quanto una retrospettiva sulla coltivazione biologica delle fave le discussioni sul Berlusconi interista che voleva comprare prima loro. Se anche fosse, sono talmente tanti i dispiaceri ricevuti dai nerazzurri a causa sua che su ogni fede pregressa è opportuno far calare un signorile chi se ne frega.
J: Juve.
Il Donadoni preso con la forza dei soldi in barba agli storici feudatari del calcio bergamasco, Manchester 2003 e più in generale una gloria internazionale certificata da opportuna mensola che loro cercano disperatamente da una vita. Purtroppo anche l’ immotivata signorilità di fronte agli orrori del 2004-2005.
K: Kakà.
Ultimo pallone d’oro rossonero, ultimo ad averne vinto uno prima della diarchia Messi-Cristiano, ultimo giocatore amato alla follia prima di comprendere la fine di un certo tipo di calcio fatto di sentimenti, ultimo di tutti quei ritorni smielati, da Gullit in avanti, che mai hanno funzionato e che spesso sono coincisi con stagioni figlie di idee logore.
L: Liverpool.
Per uno che su una serie TV piena di colpi di scena come Dallas ha posto la prima pietra dell’ impero televisivo è stato più che giusto concludere il proprio ciclo internazionale con la duplice vendetta sui Reds e sul Boca, soprattutto dopo la tragica notte sul Bosforo ancora adesso in apparenza uscita dalla mente del più folle degli sceneggiatori. Avesse venduto alla fine di quell’anno sarebbe direttamente salito al rango di divinità per qualsiasi milanista, al di sopra di ogni interminabile disputa di questo ultimo decennio.
M: Maldini.
Un cognome, una dinastia. Senza dubbio il testimonial perfetto per il Milan e per l’idea di calcio berlusconiana legata anche e molto a visibilità e immagine: bello, perfetto in campo, una faccia planetaria in anticipo, come quasi sempre sul prato verde, anche sui Beckham e Cristiano Ronaldo che sarebbero giunti anni dopo. Se mai deciderà che fare da grande, spero che la sua storia si riallacci a quella rossonera.
N: Nesta.
Un ragazzo, tifoso e capitano della Lazio fino ad un minuto prima, spaesato all’ arrivo con quella maglia rossonera che reggeva con un po’ di imbarazzo, troppo limpido per falsità del genere “un sogno si realizza”. Un uomo in lacrime dieci anni dopo, nel giorno dell’ addio, un uomo che quelli colori aveva imparato a capirli, rispettarli e infine amarli. Lucchetto indispensabile per un decennio, pareva assurdo che dopo Baresi e Maldini il migliore di un’altra generazione di difensori non fosse uscito dal nostro vivaio; fu più che giusto rimediare in qualche modo.
O: Olimpico.
Lo stadio di Atene, lo stadio di ben due coppe dei Campioni alzate al cielo. Proprio la Grecia, terra cara agli dèi dell’ antichità, un gruppetto di soggetti con cui Silvio si sarebbe trovato benissimo, sempre se Zeus avesse accettato la carica di vicepresidente vicario dell’ Olimpo.
P: Pato.
Il più grande rimpianto di questi anni, una scintilla che pareva destinata ad incendiare il mondo e che, invece, si è limitata a dividere per un po’ le lenzuola con sua figlia. Il suo mancato trasferimento al PSG nel 2012 fa saltare l’ arrivo di Tevez e, probabilmente, cambia un bel po’ di cose, accelerandole.
Q: Quattro.
Gli allenatori che hanno scaldato la panchina a partire dal gennaio 2014 fino all’ arrivo di Montella, anche lui non troppo amato a dire il vero, nell’ estate del 2016. Lo zamparinismo raramente è segno di salute per un club calcistico; infatti è stato l’ anticamera dell’ uscita di scena.
R: Rijkaard e Ronaldinho.
Uno è emblema di quando Silvio alla fine accontentava gli allenatori, l’ altro di quando l’ allenatore era divenuto semplice emanazione delle sue idee di bel giuoco e dominio territoriale. Secondo voi è rimasto più contento Sacchi nel 1989 o Ancelotti nel 2008?
S: Shevchenko.
Nordhal era lì, a pochi passi. Silvio, Andrej, ce lo spiegherete il perché? Ci avete costretti a diventare adulti quel giorno, e diventare adulti per un tifoso è qualcosa di orrendo.
T: Thiago Silva.
Thiago resta, grazie Presidente. Due settimane dopo Thiago firma per il PSG. Una cessione la sua, con allegato il signor Ibrahimovic, che ha certificato in maniera ufficiale le dimissioni del Milan berlusconiano da top club. Probabilmente l’ addio, almeno nei pensieri, è iniziato in quel momento.
U: Utopia.
Costacurta ha più volte ricordato il pensiero scolpito negli sguardi intercorsi tra i giocatori di fronte al nuovo proprietario che indicava entro breve termine la cima del mondo come obiettivo per il club rossonero: “chest chi l’è màt!”. Utopia e follia fanno rima non a caso, trovano raramente un equilibrio, quando capita difficilmente lo si può dimenticare.
V: Van Basten.
No, mi dispiace, non ho ancora trovato nulla nel calcio che mi emozioni più di Van Basten, nulla che mi faccia amare questo sport più della poesia declinata nei suoi tocchi, nei suoi gol, nello strazio del suo precoce e ingiusto addio. Se le lacrime di Capello durante quel giro di campo non sono esposte dentro un’ ampolla a Casa Milan, è semplicemente perché la famiglia di Don Fabio, che mai aveva visto nulla di simile sul suo viso , ha preferito conservarle gelosamente.
W: Wagner e la sua cavalcata delle valchirie.
Iniziò così all’ Arena Civica di Milano: su quelle note atterrò un elicottero, non servì mai per scappare come profetizzato dal sempre lucido analista Tacconi, il tizio che ne discese cambiò tutto, ma proprio tutto, da quel momento in poi.
X: Xavi.
Sì, alcuni rimpianti ci sono per certi giocatori che furono ad un passo dai nostri colori: lui, Figo che all’ ultimo rinnovò col Barcellona, Totti e qualcun altro sparso negli anni, anche in quelli bellissimi.
Y: Yonghong Li.
Il compito non è semplice, i soldi contano ma conta anche avere idee e organizzazione, essere vent’anni avanti a tutti come il Milan di fine anni ’80 e non trent’anni indietro come quello di certe squallide baruffe da fine impero degli ultimi periodi. Si dia da fare, nuovo presidente, in fondo la formula per un cinese che ha posto il trampolino dei suoi sogni a Milano è soltanto una: lavoro, lavoro, lavoro.
Z: Zlatan Ibrahimovic.
L’ ultimo fuoriclasse del Milan berlusconiano, l’ultimo colpo di teatro tra i grandi acquisti. Tre scudetti all’ Inter, eppure ancora oggi quando parla del più grande club nel quale abbia giocato e dal quale non sarebbe mai voluto andar via, parla del nostro vecchio, amatissimo Diavolo. Se in un posto si sta così bene, Zlatan non è il solo ad aver parlato così, qualche merito di chi l’ha nuovamente reso grande dopo anni difficili deve esserci. Dunque finitela una volta per tutte di citare a sproposito il Milan del pessimo Farina, perché senza il Milan di Berlusconi, piaccia o meno, molti di voi avrebbero riempito per anni le rispettive domeniche di qualcos’ altro, qualcosa che di sicuro rispetto a molto di quanto vissuto da tifosi in questi anni, avrebbe fatto schifo.