
Che dici, vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo.
Ormai attorno al suo cognome giriamo intorno da sette anni, da quel 2009 e da quell’addio tutt’ altro che degno di ciò che era stato, per mille motivi.
D’altra parte , escludendo lo scudetto 2011, l’ addio di Paolo Maldini al Milan da giocatore è arrivato in quello che è stato il vero e proprio autunno del Milan di Berlusconi, il crepuscolo di quello che innanzitutto era stato un club modello ancor prima che ricchissimo grazie al Silvio giovane nell’animo e non ancora nei capelli.
Maldini è spesso divenuta vera e propria invocazione in questi anni, soprattutto nei momenti peggiori e di fronte al disgregarsi di certi valori, altre volte è stata luce di speranza o termine nel quale si idealizzava un Milan futuro, diverso dal declinante circo spesso più simile ad un aggregato di interessi personali che ad un club calcistico degli ultimi anni.
Alla vigilia di una svolta epocale, coi futuri padroni già con un piede nell’ ingresso di casa , pareva quasi naturale conseguenza il suo ingresso, non a caso il suo è stato il primo nome al quale si è pensato, e neppure per un ruolo da bella statuina.
Un direttore tecnico in grado di dire la sua sul mercato, essere il volto a livello diplomatico del Milan, dettare linee guida in merito al settore giovanile , essere fondamentale raccordo tra spogliatoio e società, non è propriamente un ruolo alla Nedved o alla Zanetti.
La risposta arrivata è stata sconfortante, e non tanto per certi scivoloni diplomatici tipo quell’ Han Li trattato come un segretario da bypassare o per la curiosa richiesta di essere primus inter pares in un organigramma pensato a tre per ruoli e ambiti, ma proprio per la risposta in sé, affidata ai media nel mezzo di una serie di colloqui privati, e solo per poter buttare sulla bilancia il proprio cognome e mettere pressione sui cinesi che, non accettando le sue richieste, sarebbero diventati immediatamente cattivi per alcuni milanisti affetti da analfabetismo funzionale.
I cinesi, quelli che non esistono ma pagano caparre da cento milioni, si sono talmente spaventati della minaccia da ufficializzare Mirabelli il giorno stesso delle polemiche in Italia, come a dire: noi andiamo avanti in ogni caso, noi.
Vediamo di chiarirci: l’ unica maglia originale che abbia mai acquistato è la sua numero tre, la considerazione per ciò che è stato da calciatore non potrà mai essere cancellata, ma proprio perché ho ben presente dove finisca un campo da calcio.
Per il resto sarei anche stufo di pretese senza competenze o esperienza, come se i casi Seedorf, Inzaghi o Brocchi non avessero già mostrato che la capacità o esperienza diretta non possono essere mascherate da un cognome o da qualche foto in cui si sollevano trofei.
Mi auguro vivamente che alla fine Paolo accetti , che comprenda quale incredibile occasione possa essere per tutti.
Ma se non dovesse essere possibile come sembra in queste ore, inviterei tutti a ricordare le dimenticabilissime esperienze dirigenziali degli altri due componenti assieme a Paolo della santissima trinità rossonera, Rivera e Baresi, e che una certa politica accentratrice, quella per cui uno diventa uguale ma più uguale di tutti gli altri, è stata una delle piaghe del Milan degli ultimi anni.
Se invochiamo competenza e misura in società per il bene del club, è bene farlo per tutti quelli che vi entrano, senza badare al cognome, sennò è gentismo e basta.
33 comments for “Da grande vorrei fare Maldini che decide cosa fare da grande”