
“Quando eravamo re”
So di essere una persona cattiva o dalla sensibilità distorta, ma se ho messo una certa corazza di fronte ad immagini ben più forti, nulla riesce a colpirmi di più nel vedere un potente, potentissimo magari, caduto in disgrazia: può essere un calciatore un tempo fortissimo, un cantante che dalle platee mondiali è passato ai pub senza manco rendersene conto nelle sue pose, un politico che raccattava migliaia di consensi ormai ridotto ad opinionista di qualche tv locale con fondamentali domande da casa sulla viabilità.
Figuratevi la mia reazione a quel terremoto che ha percorso l’intero mondo milanista nel tardo pomeriggio del sei di maggio.
Sono nato proprio un attimo prima dell’ inizio di quegli anni, gli ottanta, in cui l’Italia ha giocato gioiosamente a fare l’America, proprio gli anni in cui la figura di Silvio Berlusconi ha iniziato ad accompagnare in mille modi la vita di ciascun italiano a prescindere dalla polarizzazione da sempre creata attorno alla sua figura. Lui in ogni caso c’era, e manco i suoi detrattori più inveterati, quelli che “io lo dicevo già nell’85” potrebbero negare che sia stato un precursore.
State ridendo? Provate a pensare che l’ attuale primo ministro utilizza modelli comunicativi con alla base l’ onnipresenza mediatica, il continuo proclama delle proprie intenzioni, l’ immediata sottolineatura di ogni dato positivo e più in generale un rapporto diretto tra lui ed il cittadino che il vecchio aveva già messo in piedi sin dal 1994, pure con le dovute differenze di mezzi a disposizione figlie della naturale evoluzione della tecnologia.
Siete belli trulli col vostro pacchetto Sky e un po’ perculate chi ancora ha l’ardire di guardare Canale 5? Sappiate che molto prima di House of Cards ci fu Dallas: a qualcuno insomma era già venuto in mente che la continuità di una serie TV meglio di ogni altra cosa potesse inchiodare un’ utenza sterminata ai propri contenitori di spazi pubblicitari, fidelizzandola. L’ evento sportivo seguito da adeguato approfondimento con qualche figa che non guasta mai? La buona Miriana Trevisan stava a Pressing quei due decenni prima che il mondo perdesse le diottrie a causa di Diletta Leotta.
Nel calcio , l’ ambito che ci interessa, aspetti quali l’assoluto dominio delle tv sui destini economici dei club, i trionfi internazionali come veicolo planetario per aziende o visibilità personale, le grandi sfide europee come risposta allo sport americano con i suoi lustrini e le sue paillettes sono tutte cose di cui già Berlusconi parlava e per le quali agiva ancor prima che si svelasse al mondo la bruttezza di Ciao, il simbolo di Italia ‘90.
Per tutte queste cose, sgrassate dalle ombre che aprirebbero un infinito e ormai logoro dibattito, quel videomessaggio è stato agghiacciante.
Già la decisione di dover giustificare decisioni sul Milan tramite lo staff che gestisce il suo profilo Facebook era strana per uno che nel 2009 Kakà l’aveva venduto senza patemi e nel 2012, dopo ringraziamenti del pueblo per la sua riconferma di Thiago Silva, aveva lasciato i soliti ufficiali di campo a prendersi grandinate di escrementi per aver aggiunto un paio di settimane dopo anche Ibrahimovic al pacchetto brasiliano spedito agli sceicchi.
La valanga di insulti presa nei commenti alla sua decisione di esonerare Mihajlovic, magari non letta ma riferitagli dai suoi sottoposti, deve essere stata una botta tremenda per chi aveva affidato da anni ormai il mondo Milan ad una cospicua serie di filtri tra lui e lo stato d’ animo della piazza, più o meno quel che si percepì nell’ ultimo discorso di Ceausescu a Bucarest: era incredulo nel sentire la pioggia di fischi, era un qualcosa che per lui non poteva esistere.
Da qui la decisione di togliere ogni filtro, pure quello del suo staff, dei papaveri di Fininvest , dei figli ma soprattutto del buonsenso, e fare una discesina in campo come ai bei tempi, un novello discorso del predellino da consegnare all’ eternità di Youtube e ai lazzi dell’ intero pianeta pallonaro.
Perché nell’ ultimo disperato appello c’è tutto il tragico epilogo di un’ epoca , c’è la spiegazione più lampante del perché i suoi alleati politici, leader di due partitini che oltre ad una certa soglia fisiologica non potranno mai andare, hanno scelto di scaricarlo, e di farlo proprio nel periodo di una campagna elettorale, periodo nel quale anche negli anni del declino aveva ancora saputo tirare autentiche zampate da fuoriclasse, basti pensare al quasi miracolo del 2013.
Nello sfoderare la foto di lui giovane, anzi giuovine giocatore del Milan, c’è un uomo che non ha ben compreso che nell’era di internet si parli di minuti e manco di ore per scoprire un goffo fotomontaggio, e che a causa dell’ immediatezza dei social il rimbalzo di una simile figuraccia sia immediato e foriero di effetti devastanti.
Nel parlare di un anno di digiuno, di Milan che “non aveva mai giuocato così male”, c’è un uomo che da troppi anni non ha idea di come venga gestito questo club, di dove finiscano i soldi di Fininvest e di conseguenza i suoi, di come si debba valutare il lavoro di un tecnico in base ai risultati e non in base alla vicinanza della lingua alle sue reali terga.
In quel “caviale e champagne” c’è ancora il ricordo di un’era, quella del Milan schiacciasassi, che aveva raggiunto il massimo punto di espansione del 94 e che si era conclusa nel 96, periodo in cui si è concentrata a partire dall’ 88 la massima densità di trofei del suo ciclo. Ciclo che poi ha avuto molti altri momenti meravigliosi ed indimenticabili, questo sia chiaro, ma che lui ama narrare come se fossimo stati alla pari con l’ attuale Barcellona fino a manco un annetto fa.
In quell’ aria da comandante in capo che si riferisce in maniera vagamente paternalistica e tranquillizzante a noi sottoposti ,come se noi fossimo lì da giorni in attesa di un suo messaggio di speranza, c’è il Donald Trump che a settant’ anni si mette in testa , insieme a dei capelli buffi, l’ idea di divenire presidente degli Stati Uniti, c’è l’ Ecclestone che ad appena ottantasei anni il suo amato Circus dei motori vuole continuare a farlo e disfarlo, di sicuro non a mollarlo. Insomma, per chi è sempre stato abituato alla prima linea la morte non arriva quando lo decide la biologia, arriva quando l’ idea del “non conta mica più nulla” inizia ad albergare stabilmente a fianco del proprio cognome.
Proprio il Milan , quel “ramo d’ azienda” che da straordinaria fionda per la sua immagine si era ormai tramutato in un binario morto, quell’ unico ambito in cui mai la sua figura era stata messa in discussione preferendo tritare il consueto Galliani, uno che di colpe ne ha comunque parecchie, o file di allenatori in epoca recente, proprio quel pezzo di impero che pareva tutto sommato più frivolo e meno pericoloso è divenuto la certificazione della fine di un uomo, della sua genialità o pericolosità a seconda dei gusti, della sua potenza e della sua autoproclamata aura di infallibilità.
Il silenzio della giungla, le palme che inziano a bruciare, Jim Morrison che canta “The end”.
Lo so, è scontatissimo, ma non riuscivo a guardare il videomessaggio senza smettere di sovrapporre nella mia mente quella scena e quella musica.
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