Berlusconi un giorno di qualche anno fa disse: “Bisogna sempre puntare a 10 per arrivare almeno a 8”. Pare che il senso sia quello di puntare sempre a grandi traguardi che tanto, male che ti va, potresti arrivare comunque in una buona posizione. Ma per quanto visto in questi anni al Milan, quel “arrivare almeno a 8” è stato prima un accontentarsi di raggiungerlo, poi un sperare di raggiungerlo, fino a dirsi “vabbé oh, l’importante è partecipare”. Che ci starebbe benissimo come mantra di vita per atleti o squadre dilettantistiche, che fanno dello sport un sorta di passatempo. Sarebbe anche la linea guida ideale per quelle squadre che non hanno i mezzi tecnici né economici necessari per ambire a vincere trofei, con tutto il rispetto sportivo che io possa loro riservare, sono loro stesse le prime a saperlo di non essere “nate per vincere”, non si sentano offese da queste mie parole.
“L’importante è partecipare”, lo può dire la Sampdoria di Zenga e Ferrero, il Torino di Ventura e Cairo, la Lazio di Pioli e Lotito, non possono dirlo e non lo dicono la Juve di Allegri e Agnelli e l’Inter di Mancini e Thohir, di conseguenza non deve assolutamente passare per l’anticamera del cervello di nessun tesserato del Milan di Mihajlovic e Berlusconi. No. Dal Milan non ci si aspetta che ci si accontenti di partecipare: “Beh i tifosi speravano di vincere lo scudetto e siamo arrivati quarti, non male”, “Siamo arrivati almeno agli ottavi di Champions. Grande stagione direi”, “Ah siamo fuori dalle coppe? Vabbé dai, succede”. Il Milan non è nato nel 1899 con questo scopo. Non ha vissuto i suoi oltre 100 anni di vita con questa idea in testa. Eppure da circa un paio di lustri pare proprio sia così. Nessun dirigente lo dice apertamente, nessun tesserato lo ammette sinceramente, ma tutti lo fanno. Partecipano.
Io invece, parlando di sport, troverei molto più calzante per il Milan, quello vero, un aforisma di Maurice Greene, non so se lo avete presente. Uno che a parte vincere una manciata di ori tra Olimpiadi e Mondiali, è anche uno che, al contrario di Berlusconi, la competizione l’ha vissuta sulla propria pelle color dell’ebano. Sudando e facendosi il proverbiale “culo così”, allenandosi, allenandosi, allenandosi, allenandosi, e nel tempo libero allenandosi. Gareggiando, mettendoci piedi, cuore, polmoni, tendini e sudore sulle piste. Ecco, Maurice Greene, che non è stato uno che seguiva l’atletica sul divano, né un dilettante, né appunto uno che puntava a partecipare, disse: “Se vuoi essere il numero uno, devi allenarti come se fossi il numero due.” Che ricorda molto “l’umilté” tanto predicata dall’ Arrigo Sacchi rossonero.
“Allenarsi come dei numeri due per essere dei numeri uno”, vuol dire non sentirsi mai arrivati, appagati, superiori. Vuol dire anche rimanere sempre vigili, pronti a subire, perché arriverà il giorno in cui non saremo più dei numeri uno per davvero, ma cominceremo ad essere dei due, dei quattro, degli otto. Decimi. E la cosa peggiore, soprattutto nello sport, è essere decimi e avere la faccia tosta di voler convincere tutti di essere primi. Puntare a migliorarsi sempre, questo vuol dire. Poi ci si può riuscire o meno, questo lo deciderà il campo, lo deciderà la vita, ma intanto ci si deve allenare come fossimo dei numeri due, anche con una decina di ori attorno al collo.
Negli ultimi anni al Milan hanno cominciato a presentarsi ai nastri di partenza a settembre, come se bastasse chiamarsi Milan per vincere trofei. Berlusconi col braccino corto e le tasche chiuse pensava di vincere lo stesso? Galliani facendo mercato con gli amici procuratori arraffando più immondizia calcistica possibile, pensava di vincere lo stesso? O forse la verità è che arrivati vicini al traguardo che la vita ci impone inevitabilmente, la vecchiaia e la morte, questi due ignoranti del calcio moderno, hanno cominciato a fregarsene e hanno pensato solo ai loro interessi personali? Cosa ha spinto i nostri dirigenti, e di conseguenza a cascata gli altri tesserati rossoneri, a smetterla di pensare come se fossero dei numeri due costretti a vincere da numeri uno? Ma in effetti, se ci pensate, quali motivazioni potrebbero avere degli over 70 che dalla vita hanno avuto tutto?
E allora perché non cedere il passo prima di arrivare alla stagione 2015-2016 tra decine di turbolenze e sonore figuracce? Questo mistero resterà irrisolto come il triangolo delle Bermuda forse. Un giorno quando né il presidente onorario né quello che al Milan fa il bello e il cattivo tempo saranno più tra noi, forse verremo a conoscenza di avvenimenti, accordi, inciuci segreti che noi ora possiamo solo ipotizzare. Nel frattempo però i fatti parlano chiaro, e i fatti dicono che dal 2007 (ma forse avevano cominciato un po’ prima) ad oggi il Milan e i dirigenti stessi, hanno vivacchiato beandosi degli allori passati, vincendo qualcosa grazie agli ultimi “canti del cigno” di campioni sul viale del tramonto, facendo un solo mercato dignitoso, che non a caso portò il tricolore, quando quell’estate la situazione politica attorno a Berlusconi era un terremoto e quindi l’invitto presidente onorario aveva bisogno di ben altra immagine pubblica.
Questo calciomercato appena concluso ci ha mostrato invece un andamento per metà diverso dai soliti ai quali eravamo abituati; per metà no. Abbiamo visto timidi sprazzi di un Milan antico, e i fantasmi del Milan recente. Ma gli ultimi ruggiti di mercato del vecchio e stanco leone, non sono casuali come non lo erano appunto quelli che portarono per esempio Ibrahimovic, sono dovuti molto probabilmente all’arrivo nel branco del giovane leone dalla Thailandia. Più motivato, più determinato e, cosa che non guasta, più ricco. Chissà se invece non fosse neanche passato mai a trovarci Bee Taechaobul, figuriamoci firmare accordi coi Berlusconi, chissà dicevo, se avremmo visto per dire Bacca, Luiz Adriano, Romagnoli e Mihajlovic in rossonero quest’anno, oppure non ricevendo un solo euro dalla proprietà, e avendo a che fare con i colpi di genio di Galliani, ci saremmo presentati con la coppia Matri-Giovinco davanti, Bonera-Aronica dietro, Lulic-Muntari in mezzo, e a comandare tutto questo ben di Dio, un confermatissimo Pipp’Inzaghi in panchina, nascondendoci malamente la verità, come loro costume, sotto il tappeto de: “lui è uno di famiglia e meritava di restare, così è rimasto. Perché certi amori…” Visto come si è concluso il mercato, nonostante il buon avvio che lasciava ben sperare, forse non ci sono andato troppo lontano. Meno male che invece è arrivato Bee.
Cristian
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