Quando alle 22.30 circa del 31 maggio calerà il sipario su Atalanta-Milan, Filippo Inzaghi sarà costretto a svegliarsi dal suo lungo sonno e dire addio alle sue visioni oniriche quali unicorni volanti, traverse di de Jong e fenomenali Milan dicembrini. Le logiche perverse che hanno caratterizzato la gestione societaria degli ultimi anni spingono alla prudenza, ma se un minimo di senno è ancora presente nella testa di chi sta ai vertici, allora l’esperienza da allenatore di Pippus Bresaolus (ammetto che questo soprannome mi mancherà) terminerà a Bergamo.
Il fallimento stagionale è figlio anche dell’operato di un tecnico che, numeri alla mano, è tra i peggiori della storia rossonera: tatticamente nullo, incapace di “leggere” le partite, impresentabile a livello comunicativo. In 10 mesi Inzaghi ha dilapidato il credito quasi infinito accumulato nei suoi anni da calciatore e ha messo una pesante zavorra su una carriera da tecnico che in futuro potrebbe sfigurare in confronto a quella di un Aldo Ammazzalorso qualsiasi.
Tempo di pensare al suo sostituto dunque, anche se i nomi dei possibili successori (alcuni credibili, altri meno) si rincorrono ormai da mesi. Molto (o forse tutto) dipenderà dal destino della società e da quelli che saranno prospettive e obbiettivi di vecchia o, si spera, nuova proprietà. Nel frattempo si è aperta la caccia al nome più suggestivo possibile e nelle ultime ore si fanno insistenti le voci sul ritorno di Carletto Ancelotti.
La sensazione è che si tratti dell’ennesima baggianata di un Silvio Berlusconi alla disperata ricerca di consensi elettorali, ma anche in caso di ipotesi veritiera il mio modestissimo e insignificante parere sarebbe contrario. Nulla ovviamente contro il buon Carlo, uno tra gli allenatori più preparati e vincenti in circolazione e soprattutto persona umanamente squisita per cui provo infinita stima e affetto, a prescindere dai successi del quinquennio d’oro 2003-2008. I motivi del mio no sono principalmente tre:
1) La cabala. Arrigo Sacchi e Fabio Capello, gli altri due grandi condottieri dell’era Silviesca, tornarono entrambi con risultati disastrosi e se è vero che non c’è due senza tre Carlo farebbe meglio a fare gli scongiuri e abbracciare forte i suoi amati prosciutti.
2) Il cuore. Già pesantemente provato dall’aver visto gli involucri di Shevchenko e Kakà vagabondare per il campo nella loro seconda esperienza meneghina, non sopporterebbe veder affondare un altro simbolo dell’ultimo grande Milan.
3) Il contesto. Ovvero la motivazione più importante: in una squadra che ha bisogno di ripartire da zero e di ricostruire anche le fondamenta, l’ideale sarebbe affidare la guida tecnica a un allenatore giovane (il che non significa improvvisato) e ambizioso piuttosto che uno già affermato e pluridecorato.
Chi incomprensibilmente scatena tempeste ormonali degne di quelle provate da un adolescente di fronte al poster di Stana Katic è Andonio…pardon…Antonio Conte, ex allenatore della Juventus e attuale Commissario Tecnico della Nazionale italiana. Le gesta del tecnico pugliese sulla panchina degli zebrati sembrano aver fatto breccia nel cuore di tantissimi tifosi rossoneri, evidentemente arrivati alla canna del gas dopo le ultime “agghiaggiandi” stagioni.
Per carità, non si può negare che Conte sia un tecnico molto preparato a livello tattico e abbia doti di motivatore non indifferenti, ma siamo ben lontani dalla figura ultraterrena che molti dipingono, arrivando a ergere statue parrucchinate in suo onore. Ancor più incredibile se si pensa che trattasi dello stesso Antonio Conte bandiera della Juventus di Moggi e di Agricola, dello stesso Antonio Conte condannato per la vicenda Calcioscommesse, dello stesso Antonio Conte che definì il Milan “la mafia del calcio”. Vien da chiedersi se il tifoso milanista abbia davvero una memoria così corta o se sia solo la disperazione dovuta alla mediocrità odierna della squadra ad accecarlo completamente.
Suscita curiosità invece il nome di Maurizio Sarri, tecnico dell’ottimo Empoli neopromosso, tra le note positive di questo campionato. I toscani hanno espresso un gioco piacevole e di buona qualità salvandosi con largo anticipo, facendo in modo che i riflettori puntassero tutti sull’allenatore toscano d’adozione, sempre di tuta vestito e accompagnato dall’immancabile cicca. In realtà è un’ipotesi che mi entusiasma ben poco, nonostante l’eccellente lavoro fatto da Sarri in quel di Empoli, una delle migliori realtà italiane di provincia, dove però ha avuto tempo e modo di lavorare senza alcuna pressione. Al Milan sarebbe tutt’altra storia, soprattutto in quello odierno dove il caos e l’improvvisazione regnano sovrane.
Senza neanche considerare le aberranti ipotesi Lippi o Cannavaro, arriviamo ai due nomi che più si avvicinano al profilo ideale: Vincenzo Montella e Unai Emery. Entrambi allenatori giovani (41 anni il campano, 43 il basco), ma con una buona esperienza in realtà di medio-alta classifica e con una predisposizione al gioco offensivo che non guasta mai. Montella ha fatto giusta gavetta a Catania prima di fare tappa a Firenze, dove in tre anni ha ottenuto buonissimi risultati esprimendo un calcio piacevole. Tra i suoi difetti potrebbe esserci una poco rassicurante abitudine a mancare negli appuntamenti decisivi: nelle partite stagionali più importanti la sua Fiorentina ha sempre fallito.
Emery si è formato nelle serie minori con il Lorca Deportiva, prima di portare l’Almeria nella Liga e di guidarla da neopromossa fino all’ottavo posto in classifica. Ha fatto benissimo anche a Valencia, dove ha ottenuto tre terzi posti in quattro anni, e ora a Siviglia, dove ha vinto l’Europa League e ha l’opportunità di fare il bis. I contro? Il doversi adattare a una realtà calcistica ben diversa da quella iberica e un’inquietante somiglianza con Max Allegri: a questo proposito, ve lo dico per non farvi cogliere impreparati, sappiate che capra in spagnolo si dice “cabra”.
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