Alla fine lo snobismo decadente, quell’ occhio che pare dominare sulla sostanza, un po’ ci ha fregati tutti.
Anni a smoccolare contro certi ingaggi “alla memoria”, dai Ronaldo ed Emerson a partire dal 2007 in poi, raccontando e raccontandoci che un Milan non più onnipotente a denari avrebbe dovuto considerare ricette più semplici, poi arriva un Sarri e il primo pensiero corre al suo tutone e a quella cicca che pare incollata come al buon Gigen durante una sparatoria.
Come se gli abiti impeccabili e le cravatte di Leonardo, Seedorf o Inzaghi li avessero schermati dagli errori dovuti alla totale inesperienza, come se saper fare un complicato mestiere di gestori di uomini ormai fosse questione non separabile dall’ immagine, in ossequio all’ odioso “tronismo” imperante dovuto al dannato santone catalano, che ha il piccolo particolare di essere anche bravo rispetto a molte altre “improvvisazioni panchinare” tanto in voga dal 2009 in poi.
Va detto che la genesi dell’ interesse verso di lui, se forse favoleggiata un po’, è quantomeno suggestiva, visto che sarebbe quella di un Berlusca nuovamente folgorato da una squadra di provincia che impartisce una sonora lezione di gioco al Milan, con contorno di “suo” tecnico che a fine gara dichiara serenamente che un Milan non può fare nulla di più mentre “l’altro” se ne esce incazzato da San Siro dicendo che aveva pregustato i tre punti.
Più o meno tutto partì così molti anni fa, ma Sacchi aveva quarant’anni e non cinquantacinque come il toscano, Berlusca aveva altre ambizioni , figli che al massimo giocavano coi Lego e non con le aziende di famiglia, un telaio già pronto e straordinario al momento di rilevare il club, il calcio costava molto molto meno per quelli che volevano vincere.
Nient’altro che una suggestione nostalgica dicevamo.
Anche perché , diciamocelo, Sarri significa certezza che gli investimenti di un certo livello rimangono fantascienza, che bisogna far legna con quel che c’è, che non dico un Klopp ma manco un Montella può ricevere quello straccio di garanzie che normalmente dovrebbero essere automatiche al momento di posare le chiappe su di una panca tanto prestigiosa.
Dall’ altra parte significherebbe avere un maestro di calcio, cosa da non trascurare in un ambiente che negli ultimi anni pare massacrare qualsiasi giovane che dimostri di valere in una prima fase, per poi perdersi in meandri di mediocrità antoniniana.
Un salto, quello dalla bottega di provincia all’ atelier in centro, che ha per esempio triturato costantemente Del Neri, ultimo ed unico depositario di antiche testimonianze di un Chievo gradevole da veder giocare, ma che quest’anno è stato brillantemente superato da un Pioli non tanto più giovane di Sarri, approdato in una piazza storicamente complicata come quella laziale.
Salto fatto pure da Conte in maniera eccellente, con la variante però che lui già lo conosceva da giocatore l’ habitat della Juve.
Poi ci sarebbe la questione ambientale, perché un top club, un top club italiano poi, è infestato da trappole di ogni genere.
Dirigenti che hanno interessi “superiori” rispetto alla richiesta di un’ onesta mezzala, presidenti che piazzano formazioni ideali con soluzioni semplicissime come quando sulla mappa di Risiko pigliarsi la Kamčatka pare una cagata, circo mediatico maggiore e minore ricolmo di gente al soldo di qualcuno, amica di qualcun altro che, ex-giocatore amico o similare, secondo lui avrebbe meritato la possibilità di allenare la squadra più di quello lì così scontroso e che mai lo vedi a zonzo nei locali meneghini che contano.
Tutto ciò vi ricorda sinistramente il Milan?
Non basta.
Il proprietario ottantenne, che sulla densità di trofei del magico periodo 1987-1996 ha costruito la sua gloria sportiva, tale gloria vorrebbe tentare di farla vivacchiare a costo zero o quasi, l’ amministratore delegato ha dovuto lottare con i denti perché qualcuno aveva tentato di fargli le scarpe, e quel qualcuno è la figlia del proprietario, sua pari grado al momento; tutti e tre costantemente pronti a smarcarsi quando le cose non vanno e magari a far puntare il fucile su un’altra delle due componenti della trinità.
Il tecnico in seconda, sulla carta sottoposto del capo allenatore, in realtà in questo club da quasi quarant’anni, è figura istituzionale che sarà il primo referente a cui andranno a domandare di crepe nello spogliatoio, quasi sempre all’ insaputa del tecnico a meno che non si voglia che la cosa si sappia.
Ah! Alcuni giocatori che osservavano da tribuna o panchina il Milan che fu sollevare trofei o lottare per essi, alcuni che spandevano la propria mediocrità o incompiutezza su campi e con maglie più consone, sono assurti al rango di senatori per semplice usucapione, piazzati su scranni che Baresi , Maldini o Nesta si erano conquistati con meriti e gloria.
Gente che manco è stata in grado di tutelare “tecnicamente” l’ allenatore scelto più o meno un anno fa in questo periodo, quello del picchetto d’ onore alle gare della primavera, quello delle foto con lui al compleanno.
Una giungla insomma; non a caso gli ultimi due allenatori ingaggiati da un’ azienda che fattura 220 milioni di euro all’ anno e che sull’ esperienza e le capacità di chi è responsabile dei risultati in campo dovrebbe fare parecchio affidamento dopo accurate valutazioni in fase d’ ingaggio, avevano come grandi meriti pregressi quello di cantare alle feste del presidente uno, e di essere amicissimo dell’ amministratore delegato l’ altro.
Non proprio il quadro ideale per uno che al momento come mestiere allena e basta e deve rispondere di ciò che fa ad un DS e ad un presidente, il tutto in una tentacolare megalopoli che risponde al nome di Empoli.
La blindatura di Inzaghi, durata da luglio fino almeno a febbraio di quest’anno, è stata più che altro una protezione “tattica”, una tregua strategica facilitata da un nome difficilmente attaccabile dalla tifoseria, almeno sino a quando non è divenuto indifendibile.
Il Milan, quello che mi ricordo, fu in grado di proteggere un tecnico emergente della serie B, uno tacciato di essere nulla altro che uno yes-man, uno sbeffeggiato in quanto unico non in grado durante il regno moggiano di portare uno scudetto a Torino; gente viva, vegeta e in salute, ma che già ora occupa il Valhalla rossonero al fianco del signor Nereo Rocco.
Ma questo non è più quel Milan, questo è un club di quelli in cui il tecnico deve farsi DS, addetto stampa, deve farsi società insomma , come un Capello ai tempi della Roma o il Mourinho nerazzurro.
Troppe incognite, troppe.
Di una cosa soltanto sono sicuro: un Sarri, ma pure un Ventura, in un futuro finalmente più logico per questa società, quando non si sa, lo vorrei piazzato ben saldo a guidare la primavera del Milan, in quell’ età in cui il talento necessita disperatamente delle ultime limature che spesso fanno la differenza tra un buon giocatore e un incompiuto. Così magari la primavera rossonera ricomincerebbe a non essere pura propaganda e la smetterebbe di essere una sinecura per vecchie glorie con pericolosa vista sulla panchina della prima squadra.
17 comments for “Sarri sì, Sarri no. E quindi? Boh!?”