“Abbiamo fatto una triste esperienza, la mettiamo a disposizione degli altri club: regolatevi”

Victoria_Libertas_1987-1988Come la tessera di un mosaico quasi completo, la sconfortante stagione 2014/15 permette d’intuire il risultato definitivo di questo trend pluriennale: la lenta deriva. In un’ottica di lungo periodo le arrabbiature con giocatori e allenatori di turno lasciano il tempo che trovano: le responsabilità vanno ricercate altrove, tra una proprietà completamente disinteressata delle sorti sportive del club che demanda completamente la gestione ad un’amministrazione che non pare esercitarla in modo efficace. Non stupisce quindi che la tifoseria auspichi la dipartita del magico duo Berlusconi-Galliani, ed in particolare la cessione del club: non esiste riconoscenza che regga di fronte alla prospettiva del declino.

Non bisogna tuttavia lasciarsi adescare dalla frustrazione che getta ingannevolmente luce positiva su qualunque potenziale via d’uscita, mantenendo la concentrazione sulle mancanze di chi esce anziché spostarla sulle garanzie offerte da chi entra. Eppure le lezioni della storia dovrebbero stimolare qualche riflessione in più.

Basterebbe ad esempio cambiare sport e fare un salto indietro agli opulenti anni ’80, quando il benessere e lo sviluppo tecnologico facevano sognare che i margini di crescita fossero infinti e che nessuna impresa fosse veramente impossibile. Negli anni in cui al Milan iniziava l’era Berlusconi un altro imprenditore di successo -Cavaliere del Lavoro, fondatore e Presidente di un’azienda leader nazionale del proprio settore- acquistava la Victoria Libertas, società di basket dedita prevalentemente a salvezze strappate coi denti, con l’intento di portarla a lottare per lo scudetto.

La Scavolini Pesaro divenne così la prima società a sborsare la cifra di un miliardo di lire per un giocatore di basket ed allestì un roster d’eccezione imperniato su uno zoccolo duro di talentuosi giocatori italiani e impreziosito dal duo delle meraviglie Darren Daye – Darwin Cook. La VL salì ai vertici del basket nazionale e vi rimase per circa un decennio centrando, tra l’altro, due storici scudetti; la città in tripudio si tinse di biancorosso.

Poi il declino: i risultati sportivi peggiorarono e nello sport sono sempre loro a distribuire torto e ragione. La piazza incominciò ad auspicare la cessione della società e i giorni di gloria prospettati dal promissario acquirente Enzo Amadio ingannarono la tifoseria come il miraggio di un’oasi nel deserto. Il seguito della storia, però, non si trova negli albi d’oro né negli highlights di Youtube ma in polverosi fascicoli tra Guardia di Finanza e cancelleria fallimentare. La squadra non fu iscritta al campionato: inutile perfino il tentativo in extremis del vecchio presidente Valter Scavolini, disponibile a coprire buona parte dei debiti sociali appena due anni dopo aver regalato una società coi conti in ordine. La firma non arrivò e le speranze si spensero. “Ho perso il mio nemico carissimo” il triste commento di Dan Peterson.

Il basket pesarese ripartì dalle categorie minori con una public company finanziata, tra gli altri, da Valter Scavolini che individuò nella rapida riconquista della Serie A l’unica medicina per dimenticare in fretta questa brutta pagina: “Abbiamo fatto una triste esperienza, la mettiamo a disposizione degli altri club: regolatevi”.

Le dichiarazioni di Amadio, successivamente accusato di bancarotta fraudolenta, furono di altro tenore: “Qualsiasi imprenditore va in un posto contando di poter realizzare qualcosa. A Pesaro non è stato possibile”. Una frase intrinsecamente sufficiente a dirimere qualsiasi possibile obiezione sulla propedeuticità della serietà delle persone rispetto a qualunque ragionamento economico.

Il Presidente di un club è detto il primo tifoso, non a caso. Se non è più attaccato al club è bene che lasci il posto, ma la fretta è pur sempre cattiva consigliera. Non si fa il bene del Milan auspicando la cessione al primo balcanico o asiatico che propinano i giornali, indipendentemente che sia un imprenditore di successo, un santone, una mondina o uno scagnozzo della Yakuza. Occorre prima di tutto assicurare serietà e competenza, elementi che -per fortuna o purtroppo- non si comprano col denaro.

Se da un lato non v’è dubbio che il Milan non offra più a Berlusconi nulla di suo interesse, non è altrettanto vero il contrario: Berlusconi per il Milan è sempre una garanzia. Mi domando quindi se non sia preferibile che il Presidente resti al suo posto e smetta di sprecare tempo a dettare formazioni e disposizioni strampalate, ma si decida a dotarsi di uno staff adeguato ad ammodernare le strategie operative e la dotazione infrastrutturale sulla scia degli esempi di successo proposti dai principali grandi club europei: il Milan non fattura quanto Real o United, ma duecentocinquanta milioni dovrebbero essere sufficienti a mettere a punto le migliorie di cui trattasi, e magari vedere se anche il Presidente ricomincia a divertirsi.

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