Provate ad immaginare un ideale universo sportivo in cui , in barba a futili ragioni logiche e cronologiche, i passaggi di consegne, le eredità raccolte, possano avvenire in tempo reale, sotto i vostri occhi.
Esce Gianni Rivera sostituito da Roberto Baggio.
Esce Magic Johnson sostituito da Michael Jordan.
Ci siamo capiti, insomma.
Il tre aprile del 1982, qualche mese prima dell’urlo mondiale del signor Tardelli, chi stava sugli spalti del vecchio Stadio De Meer di Amsterdam ha avuto un simile privilegio.
Partita facile per l’ Ajax contro il Nec Nijmegen, il terzo gol lo segna uno che è agli spiccioli di una carriera straordinaria, uno il cui cognome può causare brividi indistinti tra le vecchie case dei mercanti della capitale olandese o nel Barrio Gotico di Barcellona, le due città della sua vita, le due squadre della sua vita: Johann Cruyff. Il prototipo del fuoriclasse moderno, l’ unico insieme a Ferenc Puskas che possa testimoniare quanto i tedeschi nel calcio siano stati efficienti e spietati nello spegnere lampi di sfolgorante bellezza tra Berna e Monaco nell’ arco di soli vent’ anni, tra il 1954 ed il 1974.
Lo sguardo su quel Cruyff a fine corsa non può che essere malinconico per qualsiasi olandese che abbia vissuto quell’ epoca: se c’è stata una risposta europea negli anni 70 allo strapotere tecnico di Pelè nel decennio precedente, quella risposta sta nei piedi di lui, del figlio di un’ addetta alle pulizie di quello stadio che, un paio di decenni prima, aveva convinto i tecnici delle giovanili a dare un’ occhiata al suo figliolo.
Chiunque lo veda in quegli anni non può che pensare a ciò che è stato e, tra breve, non sarà più.
Eppure è in quel momento che capita uno di quegli attimi irripetibili e rari dello sport.
La gara è un dominio totale e Cruyff ha già tenuto fede al suo storico soprannome: profeta del gol.
E’ il momento di sostituirlo e di mandare in campo un ragazzo di diciassette anni un lungagnone alto 188 centimetri destinato a stracciare dogmi e luoghi comuni calcistici intorno ad un numero, il nove, e ad un ruolo, il centravanti.
Nel 1982 il calcio ha più di un secolo, ma l’ immagine che associa al ruolo il consueto granatiere fisicato in stile John Charles o al massimo un tozzo svaligiatore delle aree di rigore alla Gerd Muller è cristallizzata nell’ immaginario collettivo. Più o meno un decennio dopo ci sarà ancora la categoria del centravanti, ma un gradino più su ci sarà Marco Van Basten , e il numero nove si sarà affrancato da mero indicatore di ruolo e sarà divenuto, come già capitato al sette e al dieci , pura poesia.
Punizione dalla destra, due avversari in marcatura –molto teorica come sempre in Eredivisie- salto da fermo, palla messa esattamente dove vuole, gol. Inizia qui il volo del Cigno, quel volo che è sempre parso disturbare gli dèi del calcio.E’ soltanto il 1986, Marco è da anni la stella indiscussa dell’ Ajax con valanghe di gol segnati, titoli olandesi ed una Scarpa d’ oro sulla mensola di casa, ma già la caviglia destra reclama il primo stop. Quell’ anno l’ Ajax vince la Coppa delle Coppe, la finale la decide lui.
La cronaca finisce qui, sarebbe inutile ripercorrere le gesta di Marco con la maglia del Milan, perché ciascun milanista dai 35 agli 80 anni ha il suo di Van Basten: il fuoriclasse grazie a cui hanno potuto gridare un vaffanculo ad anni di B e di camminate sull’ orlo del fallimento, quello che ha fatto piangere vecchietti che non pensavano potesse più capitare loro dopo Schiaffino, Nordhal e così tanti inverni caduti su Milano, o quelli come me in quella lunga , tremendamente maschile adolescenza che va dai 12 ai 25 anni in cui ci si sente invincibili e in cui nascono eroi calcistici che ti accompagneranno per una vita intera, senza che alcuno di quelli che arriveranno dopo potrà sembrarti lontanamente di quel livello.
Invito sempre tutti caldamente a reperire sul tubo, senza badare alla qualità un po’ vintage delle immagini, i filmati di lui all’ Ajax, prima che le caviglie iniziassero a scricchiolare. La verità che vi apparirà sarà sconvolgente: da noi ha giocato e dominato per sei stagioni, solo quattro intere purtroppo, con almeno il 25/30% in meno della velocità che aveva fino ai 22 anni. Una semplice considerazione medica, un modesto tributo alla leggenda in quei tempi in cui al quinto/sesto fallo da codice penale, poteva pure capitare che ammonissero il Pasquale Bruno della situazione.
Altro che il Messi odierno che si finisce il primo tempo con tre dei suo quattro custodi già ammoniti per i restanti quarantacinque minuti.
Tante volte ho sentito gente disposta ad avere una Coppa dei Campioni in meno in bacheca pur di non dover vivere l’ incubo di Istanbul, io ne avrei data una indietro volentieri per non dover vivere il tuo maledetto addio nel 1995 e averlo sano dal 92 almeno fino al 98…non ci avremmo perso restituendone una, anzi, il Real non sarebbe stato così ossessionato per anni dalla Decima. Ci saremmo arrivati prima noi con largo anticipo.
Invece tutto finì: l’ ultimo gol ad Ancona, la finale di Monaco in cui stava in campo ma non era più lui, due anni e mezzo strazianti in cui si rincorrevano voci ma sulla Gazzetta il suo nome era sempre tra gli indisponibili. Ci ha provato in tutte le maniere a non accettare che a 28 anni tutto fosse già finito.
Nulla è stato facile da allora: una carriera da allenatore difficile, ombre che ancora adesso lo rincorrono, dolori che spesso gli hanno reso difficoltoso pure un pensionatesco passatempo come il golf.
Guardando a quegli anni meravigliosi per il calcio mondiale, è dura pensare che gli dèi del pallone tutto concedano e abbiano concesso a quell’ argentino grassoccio, dalle pessime abitudini, col vizio del delirio e della megalomania, e allo stesso tempo accompagnino tuttora con malignità i passi del Cigno, senza perdonargli nulla.
Probabilmente la caciaresca genialità di Diego Armando può pure suscitare simpatia, l’ algida perfezione di Marco Van Basten può spesso provocare invidia, che la si guardi dagli spalti di uno stadio o dall’ aria sottile dell’ Olimpo del calcio.
Oggi ne fai cinquanta, caro Marco.
L’ unica cosa che mi sento di dirti è questa: grazie di tutto, grazie per sempre.