L’orologio segna le quattro e trentasette minuti e il sonno non sembra aver la minima intenzione di arrivare.
Ma io so perché.
Certo, sicuramente il fusorario da vacanza aiuta, o meglio, non aiuta. Ma io so che questa notte non chiuderò occhio per il semplice motivo che domani, o meglio, tra qualche ora, si ricomincia. Ed è meglio che si ricominci perché francamente non ne potevo più.
Ho la fortuna inenarrabile di abitare a 500 metri dallo stadio intitolato al Pepin. E credetemi, vederlo ogni giorno dalla finestra è veramente una cosa a cui difficilmente potrei rinunciare. E lo sto guardando anche ora, gigante addormentato, stagliarsi nel buio di una notte inutile della città di Milano. Non è illuminato, ma sono accesi quei fari giganteschi che lo cingono all’esterno. Vi siete mai fermati a guardarli dal basso provando un senso di vertigine fortissimo? Io lo faccio ogni anno, da quando ero solo uno gnomo che trascinava sua zia di corsa in via dei Rospiglosi al grido di “corri! andiamo a vedere Bambasten!” (Marco ti prego, stai bene. Sei uno degli Immortali, ricordalo).
Ma sto divagando, quello che volevo scrivere era semplicemente una riflessione sul perché siamo così condizionabili e condizionabili dal pallone, sul perché quello che nasce come uno sport diventa poi una parte imprescindibile e inscindibile di noi stessi.
Cioè, questa potrebbe anche essere una domanda, ma non credo ci possa essere una risposta. O almeno una risposta che possa considerarsi universale.
Io credo che una persona razionale, istruita (o almeno con la pretesa (fallace) di esserlo) e che riesce, a tratti, a far funzionare il cervello, come può essere il sottoscritto (che come noterete è anche dotato di una certa modestia), sia assolutamente in grado di perdere completamente la testa e risultare, nella vita di tutti i giorni, condizionato dal pallone. E la cosa assurda è che reputo la cosa perfettamente normale.
So di non essere solo. Siete in tanti così come me, c’è chi lo maschera e chi scrive un testo senza il minimo senso alcuno alle cinque del mattino sul fatto che non riesce a dormire perché è eccitato come un bimbo il 24 dicembre.
Questo accade perché il pallone è tutto. È memoria di un passato felice, è una tribolazione presente, è un’aspettativa futura felice. È scontro dialettico, è vittoria orgasmica sul rivale e sconfitta bruciante. È testosterone e allo stesso tempo sentimento. È amicizia, è brotherhood, è astio e tradimento. È poesia e volgo. È tackle e rovesciata.
Potessi scrivere bene direi che il pallone è la metafora della vita.
Per me.
O più semplicemente vivo il pallone come se fosse una questione vitale.
Ma mi piace di più l’idea di aver estrapolato un qualche pensiero arguto e profondo.
Il pallone è vita. Ma è anche di più. O quantomeno resiste di più. Perché il pallone, utilizzando le parole di un poeta che il calcio lo odiava e lo considerava popolare nella peggiore delle sue accezioni, ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, ricomincia la sua storia.
The Beautiful Game.

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