Il calcio, i dinosauri e il new deal.

1026232_191086891057726_2066369362_oLa storia del calcio riferirà ai postumi che nella stagione 2013/14 è stato totalizzato il record di punti. Avrà il tatto di tacere l’avvilente pochezza tecnica di un campionato ucciso da collezionisti di scene mute nei palcoscenici prestigiosi. E dire che quindici anni fa, quando i ragazzi della mia generazione acquisivano la maturità necessaria per gustare appieno lo spettacolo chiamato calcio, la Serie A era unanimemente proposta come il campionato più bello del mondo. E lo era, lo era eccome. Erano gli anni delle bandiere, dei successi internazionali, dei palloni d’oro, delle famose sette sorelle.

Scorrendo gli speciali precampionato dei Newsweek d’annata la malinconia stringe un nodo all’esofago, tanto erano forti quelle formazioni. La Lazio schierava Mancini, Vieri, Nesta, Mihajlovic, Nedved, Almeyda, Stankovic, il Parma Buffon, Thuram, Cannavaro, Veron, Fuser, Crespo, Chiesa, la Juventus Del Piero, Zidane, Davids, Peruzzi, Ferrara, Inzaghi, Montero, l’Inter Djorkaeff, Ronaldo, Zanetti, Pagliuca, West, Bergomi, la Fiorentina Batistuta, Rui Costa, Toldo, Heinrich, Torricelli, Oliveira, la Roma Cafu, Aldair, Totti, Candela, Delvecchio, Tommasi, Paulo Sergio, mentre in provincia maturavano talenti del calibro di Montella e Zambrotta. E poi il Milan. Per riassumere tutti i campioni che hanno indossato la nostra casacca in quegli anni servirebbe come minimo un elenco allegato. Da allora il declino, accelerato dalla vicenda Calciopoli. Ma cosa è cambiato?

Una prima risposta è di tale evidenza da risultare eccessivamente banale: il cash. Già allora vigeva un meccanismo perverso che spingeva le società a spendere cifre folli nonostante le ingenti perdite. L’inflazione galoppante dei contratti stipulati aveva divelto ogni legge di mercato: un miliardo al mese per Batistuta, che sopravanzava Del Piero e Ronaldo, novanta miliardi per acquistare Christian Vieri, una cifra vertiginosa per un paese di operai manifatturieri. Quel calcio era una macchina mangia miliardi e, come l’intero sistema produttivo italiano, ha vissuto per anni di una ricchezza fittizia, nominale, evanescente. Così le sette sorelle si sono estinte come i dinosauri con il sopraggiungere della crisi di chi le sosteneva: la famiglia Cecchi Gori, le aziende Cirio e Parmalat, e la famiglia Sensi.

Quindi bando alla malinconia e benvenuta la sostenibilità: esempi virtuosi come la Roma che si rafforza vendendo e il Napoli che da anni si autofinanzia valgono molto più dei mille milioni scialacquati da Moratti. Ma prima di voltare pagina occorre domandarsi se vi sia qualche lezione da imparare, se osservando il passato si possano trovare soluzioni nuove ai problemi vecchi, se non si abbia disimparato a fare cose che una volta ci riuscivano. Qualcuna di sicuro.

Concentrare le risorse sugli obiettivi strategici. Maurizio Zamparini, allora presidente del Venezia, lamentava le difficoltà delle provinciali ad acquisire le riserve di grandi club come Kovacevic, che guadagnava un miliardo di lire (516.000 euro). Considerando la rivalutazione monetaria, ci si aspetterebbe di remunerare una riserva odierna con circa 704.000 euro annui (Indice Istat). Basta pensare a Robinho e Pazzini per capire che non è proprio così. Il calcio non pare il luogo adatto a tradurre in pratica nobili principi di equità e redistribuzione. Se non fai la differenza non puoi guadagnare così tanto. Non più. Non qui.

La sforbiciata dei compensi proposti alle riserve potrebbe originare problemi di allestimento della rosa o di gestione dello spogliatoio. E allora largo ai giovani. Le fortune di squadre come Barça e Bayern si fondano anche sulla formazione interna di talenti di livello mondiale. In Italia no. A metà anni ’90 i vivai sono stati abbandonati per dedicarsi alla ricerca del “colpo esotico”. Il risultato è un divario abissale tra le capacità dei giovani sfornati nelle ultime generazioni calcistiche rispetto a quelle precedenti. Questo è l’elemento più avvilente. Basta fare una rapida scandagliata dei giocatori attualmente in attività provenienti dalla nostra scuola calcio per rendersi conto che serve una drastica inversione di tendenza.

In conclusione, l’aver voltato pagina -pur con tante incertezze e incoerenze- dagli anni delle spese folli al new deal della sostenibilità economica è certamente un fattore positivo. Ci sono tuttavia numerosi aspetti da migliorare. In primo luogo la gestione e razionalizzazione delle risorse. In secondo luogo una drastica revisione dell’approccio alla formazione interna e allo scouting. Qualche cambiamento è già in atto, occorre accelerare con coraggio tale processo affinandolo e perfezionandolo, magari prendendo spunto da esempi virtuosi di altri club europei.

Se un giorno diventeremo più efficaci ed efficienti i campioni torneranno in Italia. Oppure spolvereremo giornali d’annata per distrarci dalle cappelle di Agazzi.

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