Finalmente Lisbona!

Finale lisbonaCi sono luoghi nel mondo in cui è facile oscillare in un amen dalla malinconia alla felicità, Lisbona è uno di questi. Sarà perché la sua piazza più bella, Praça do Comèrcio, regala un intero suo lato all’acqua del Tago e quei gradini che la concludono portando verso il blu sono un ricordo di quando la città era arrivo e partenza verso uno sterminato impero, sarà perché l’Africa che all’improvviso ti aggredisce da un vicolo dell’ Alfama con i suoi colori e odori, ti ricorda che di persone era fatto quell’ impero, o piuttosto perchè l’elegante Rua Augusta con le sue tante vetrine sbarrate è l’ emblema di un altro attualissimo impero, l’ Unione Europea, in cui non si sta troppo bene, fatto sta che perfino la massima gloria calcistica cittadina, il Benfica, può passare in venti giorni dall’euforia per la conquista di un titolo nazionale allo sconforto per una maledizione che inchioda la sua gloria internazionale agli anni ’60 e a quel suo figlio adorato, Eusebio, da poco scomparso.

Un sottile crinale da percorrere, con gioia e disperazione che ballano lì davanti ad tiro di schioppo, il crinale che stanno per percorrere i protagonisti dell’annuale più grande migrazione di massa all’interno del Vecchio Continente, i tifosi delle due finaliste della Champions League, ignari fino almeno alle undici e mezzo di sabato sera di quale sarà il lato verso il quale scivoleranno nel catino dell’ Estadio da Luz.

Una finale continentale che stabilirà una supremazia “municipale” almeno per una stagione, un derby.

Da una parte il Real Madrid, il più iconico di tutti i club calcistici, dall’ altra l’Atletico Madrid, l’eterno sconfitto, il messicano nato due chilometri sotto El Paso e la linea del benessere, il ragazzino che non sempre riesce ad accettare la dura eredità di fede lasciatagli dal padre, ma la porta avanti con orgoglio in mezzo ad un qualunquista mare blanco, sin dai banchi di scuola.

La stagione dell’ Atletico è già memorabile ora, i paragoni con il Borussia Dortmund della scorsa stagione, ricolmo di giocatori di assoluto livello, inopportuni.

Partito Falcao nell’estate 2013, arriva dal Barcellona David Villa a spendere gli ultimi spiccioli di una grande carriera, ma soprattutto salta all’ultimo momento il trasferimento in Turchia di tale Diego Costa, venticinquenne centravanti fino a quel momento ritenuto non troppo interessante da nessuno dei due paesi intestatari del suo passaporto, Brasile e Spagna. Il seguito è noto: Diego Costa diventa il più letale bomber del continente e sarà quest’estate l’ ennesimo centravanti, da Vieri in poi, venduto a cifre astronomiche dai Colchoneros. Venduto a quello stesso Chelsea che già detiene il cartellino di Courtois, straordinario portiere belga che a ventidue anni pare già un veterano. A a questi due si devono aggiungere il gioiellino Koke, altra perla della scuola mediana spagnola, uno che il pallone non lo perde manco quando dorme, un’ottima coppia di difensori centrali, Godin e Miranda, il funambolico Arda Turan. Ma in questo Atletico tutti svolgono alla perfezione il loro dovere, pure quel Tiago Mendes e quel Diego Ribas da Cunha che gli juventini non vorrebbero rivedere manco su un poster.

Perché questo club si sintetizza nel nome del suo tecnico: Diego Pablo Simeone. Nel suo credo calcistico, quella serie A che ha vissuto da giocatore per anni e come prima panchina europea a Catania, è marchiata a fuoco, non nell’accezione dispregiativa che spesso le attribuiscono quei farfalloni castigliani o catalani, ma in quella più positiva: la duttilità, la coesione assoluta verso l’ obiettivo, la capacità di soffrire quando non c’è altro da fare, quella di colpire e quando si può massacrare.

Correre quasi sempre in testa a quella Liga che solitamente già ad ottobre diventa una corsa a due è cosa straordinaria, resistere mentalmente e fisicamente al doppio impegno, vincendo il titolo in quella che di fatto è stata una finale in casa di un club che negli ultimi venticinque anni di finali ne ha giocate nell’ordine di alcune decine, il Barcellona, qualcosa di simile ad un calcio in culo al destino oltre che a fatturati quattro volte più grandi.

La gara di San Siro contro uno dei pochi Milan di livello di questa amara stagione è stata l’ emblema di questo Atletico molto poco spagnolo: rossoneri che nel primo tempo e nei primi minuti del secondo sfiorano a più riprese il gol, apnea totale per gli iberici, resistenza assoluta e tenuta ad ogni costo del caposaldo in attesa che cessi il fuoco di sbarramento, mezza occasione sul finale, gol.

Ogni momento di questa stagione in cui si è palesato un brandello di opportunità per spostare un metro più in là il traguardo delle proprie ambizioni, l’ Atletico se l’ è preso. Verso la Liga, verso Lisbona, verso una finale che manca da quarant’ anni e che quarant’ anni fa vide trionfare per la prima volta il Bayern Monaco, verso il Real Madrid.

Già. Dire Real per il calcio europeo è come dire Ferrari per la Formula Uno o Lakers per la NBA: non sono bastati i trentadue anni trascorsi senza la Coppa tra il ’66 ed il ’98 a scalfirne la gloria, e neppure i dodici ancora in corso dall’ ultimo trionfo a Glasgow. Il 95% e oltre dei calciatori forti del mondo, quando chiama la Casa Blanca, non può che rispondere presente.

Se si parte da Ronaldo, arrivato nel 2002, e si arriva a Bale nel 2013, i soldi messi in fila per arrivare a rigiocarsi una finale sarebbero sufficienti a risanare alcune delle derelitte regioni della Spagna. I discorsi su quanto sia etico aver raggiunto ORA certi livelli di fatturato potendo per anni contare su fondi illimitati e a perdere da parte di quelle banche iberiche amorevolmente salvate dal collasso pure dalle nostre tasche, li lascio ai miei cari Don e Gimbal, personaggi matematicamente competitivi molto più del sottoscritto.

La Decima è un’ ossessione pluriennale. Certo di titoli se ne sono continuati a vincere, non vorrei far torto a gente come Capello, Schuster o Mourinho, ma ognuno di loro, tutte le volte che vantava al Calderon o al Perez di turno la conquistata supremazia nazionale, si deve essere sentito rispondere: “va bene, ma l’ Europa?”.

A giocarsi l’ ossessione è arrivato “The normal One”, sir Carletto da Reggiolo, reduce da vittorie in Italia col Milan, Inghilterra col Chelsea, Francia col PSG, proprio quello che per coloro che se ne intendono era “un maiale che non può allenare”. Gobbi, vabbè.

La stagione del Real è l’embema di tutti i pregi e difetti storici di Carlo. Uno spogliatoio di stelle finalmente sereno dopo gli anni di guerra permanente imposta da Mourinho, uno schieramento di giocatori offensivi da far impallidire filosofi cool come Guardiola o simpaticoni carismatici come Klopp: Coentrao, Di Maria, Modric, Benzema, Bale, Cristiano Ronaldo; ciascuno di costoro, a livelli diversi, potrebbe essere tranquillamente l’ uomo decisivo, quello del tocco o del gol in più, in qualsiasi squadra del mondo. Il Gran Visir del crudo da Langhirano li fa giocare tutti insieme. Dall’ altro lato della medaglia va segnalata una Liga gettata al vento in più occasioni, un tracollo a Dortmund, ideale remind di alcuni rovesci terrificanti presi da Ancelotti in momenti in cui tutto sembrava già al sicuro in saccoccia, ormeggi mollati in campionato nell’ esatto momento in cui si è materializzata una coppona da acchiappare. Ma in questo momento, giustamente, negli occhi dei tifosi madridisti c’è soltanto l’ ultima impressionante sinfonia suonata a Monaco di Baviera, una gara perfetta in faccia a quel Guardiola incubo per i castigliani dal 2008.

Due record a tiro: diventare il primo club a raggiungere la doppia cifra di coppe in bacheca per il Real, la possibilità di sedersi idealmente a fianco di una leggenda come Bob Paisley con tre trofei da allenatore per Carletto.

Un vecchio saggio ha trovato la sintesi perfetta per questa gara:

il Real deve affrontarla pensando che sia una finale e non un derby, l’Atletico deve fare l’ esatto opposto”.

Volete un pronostico? Scordatevelo.

Sulla carta non c’è partita come storia, armi a disposizione, tradizione, mancherà  Diego Costa quasi sicuramente. Ma l’ Atletico questa stagione l’ ha lastricata di carta e opinioni illustri, sempre dopo essersi pulito le terga con le medesime.

In fondo chi lo sa: a volte esci da qualche bettola del Bairro Alto per una sigaretta e con un po’ di malinconia addosso, ma basta appoggiarsi al parapetto di un miradouro, una di quelle terrazze che Lisbona te le offrono ai tuoi piedi, e qualche nota di fado nel silenzio può renderti anche solo un momento, solo qualche secondo, perfetto e irripetibile.

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