Torna dopo tanto, tanto tempo la soap opera più amata dai milanisti…
“Dis is de taaaaim tu rimembor, cosiuill no las forevo, dis ar de deeei tu ollon tu…”
Puntata 699069 – Il gioco del trono.
Casa Milan, Adriano Galliani era seduto sul trono, davanti a lui diversi documenti, grafici, tabelle, elenchi. Si mise comodo su un fianco appoggiando un gomito sul bracciolo, reggendosi la testa con espressione beata e soddisfatta, nell’altra mano un elenco di nomi. Il trono era comodo anche se l’averlo rivestito in pelle di giornalisti Mediaset non fu una grande idea, lo rendeva scivoloso, costringendo il sovrano amministratore delegato nonché vicepresidente vicario ad assettarsi spesso in equilibrio col deretano per evitare di scivolare fin sotto la scrivania, dove si trovava come sempre Pellegatti a fare le fusa: “Questo è mio. Questo è mio. Quest’altro è mio. Questo… Questo… Questo non ricordo… Me lo segno.”
Un uomo che fino a quel momento nessuno a Casa Milan aveva notato, comparve in fondo all’ampia sala del trono e urlò: “Amministratoredelegatononchévicepresidentevicario Galliani Adriano!” L’eco di quelle parole rimbalzò per tutto l’enorme vuoto, nella testa di Pellegatti, mentre nell’ampia sala del trono si sentì appena: “Chi sei? Come osi disturbarmi mentre faccio la conta dei giornalisti asserviti al mio potere? Presentati!” L’uomo fece due, anzi quattro, anzi otto passi, ma quanto era ampia questa sala del trono?! Fece dodici passi per farsi vedere meglio: “Sono Gatti.” Un improvviso soffiare di gatto si udì sotto la scrivania di Galliani: “A cuccia Carlo, dopo ti do i croccantini.” Di nuovo rumore di fusa: “Gatti eh? Il tuo cognome mi è completamente sconosciuto, hai anche un nome?” L’uomo incassò quella domanda con sorpresa, si guardò attorno come alla ricerca del nome perduto: “Veramente no. Mi chiamo Gatti, soltanto Gatti. Così vengo chiamato in ogni quotidiano e così mi conoscono da ieri in tutta Italia. Neanche mia madre sapeva chi io fossi.” Galliani si sbilanciò in avanti appoggiando i gomiti sulla scrivania, il trono schizzò indietro come un proiettile, sfasciò una vetrinetta con le spille, le penne e gli orologi del Milan e si rovesciò su un fianco: “è stata una brutta idea metterci anche le rotelle.” Osservò Galliani.
Mentre Pellegatti cercava di riassettare tutto e aiutava il sovrano a sedersi, Gatti riprese a parlare: “Sono uno dei soci del Milan, in verità di minoranza… Molta, molta minoranza… In ogni caso sono qui perché ho da dirle una cosa importante.” Galliani con non curanza e facendo un cenno con la mano come a scacciare una mosca, rispose: “Importante per te o importante per me?” Gatti incassò anche quella domanda: “Importante per il Milan.” Galliani sbuffò e si svaccò sul trono, piantando bene i piedi a terra per evitare di finire contro la vetrinetta: “E allora non me ne frega niente.” Il terzo colpo incassato fece diventare Gatti paonazzo: “Ma a lei deve importare! Riguarda il futuro del Milan! Il bilancio fa schifo! Gli ultimi anni della sua gestione fanno schfo! La rosa fa schifo! Le stagioni fanno schifo! Il gioco fa schifo! E lei…”, “E io me ne frego. Tutto qui quel che volevi dirmi? L’ovvio?”, Gatti perse per un attimo l’equilibrio, frugò nelle tasche alla ricerca di qualcosa che non c’era e balbettò: “Si! Anzi no… Cioè… I tifosi non sono contenti, ecco!” Galliani a quel punto esplose in una roboante risata, rise talmente forte che ci vollero un paio di bicchieri di grappa per ritrovare il fiato che si stava strozzando in gola: “I… Cosa?! I tifosi?! Ah ah ah ah! Ma chi stracazzo se ne frega dei tifosi?! Alla maggior parte di quelli interessa solo leccarmi il culo! Come ai giornalisti! Del Milan se ne fregano quanto me ne frego io! Finché ci sarò io qui seduto su questo trono, finché la famiglia se ne starà lontana, qui comando io e decido tutto io, che ti piaccia o no, mio caro… Caro… Gatti e non so cos’altro! E adesso sparisci che devo andare da Giannino a mangiare e sono giá in ritardo!” Gatti restò ancora qualche minuto impalato, pallido e sudato poi abbassò la testa, diede le spalle a Galliani e si diresse verso l’uscita: “Ah! Un’altra cosa!” Aggiunse il sovrano: “Se ti sta tanto a cuore il pensiero dei tifosi, cambia squadra. Diventa socio del Chievo per esempio! Ah ah ah ah!” Gatti incassò anche questa ma si fermò e si voltò: “Verrà il giorno in cui lei non comanderà più e non riderà più!” Galliani si avvicinò con passo lento e un ghigno sul viso alla “Ueh cicètto te capì?” Pellegatti si strusciava sui suoi pantaloni lasciandoglieli pieni di peli e facendo le fusa: “Ne sono certo, Gatti. Quel giorno molto, molto lontano, arriverà ma fino ad allora me la sarò goduta. Per farmi fuori, il cda di ieri era la tua ultima speranza.” Gatti alzò gli occhi al cielo, divenne buio improvvisamente, un fascio di luce lo investì attraverso la vetrata sul tetto: “No, ce n’è un’altra.”
Barbara Berlusconi, la bella ereditiera, arrivò con l’elicottero. Non c’era nessuno ad aspettarla sulla pista, nessuno ad aspettarla all’ingresso, nessuno ad aspettarla nella sala del trono, nessuno nei corridoi, nessuno negli uffici, nello store, al ristorante, nessuno da nessuna parte: “Sembra di essere a San Siro.” Osservò portandosi le mani sui fianchi e guardandosi intorno. Fabio Novembre al suo fianco ne approfittò: “Sarebbe il caso di discutere finalmente delle piastrelle del bagno, dunque pensavo di fare tutta una cornice in marm…”, “Ma basta con ‘ste piastrelle del bagno! Te l’ho già detto! Non me ne frega niente! Falle grigie, falle rosse, falle verdi! Falle rosa per i maschi e azzurre per le femmine! Che ne so?!”, “Forse volevi dire il contrario?”, “Volevo dire, fai come cazzo ti pare! Chiaro il concetto? Ma dove sono finiti tutti piuttosto?!” In quel momento un giovane in camicia e cravatta comparve davanti a loro uscendo dal bagno, non si accorse della loro presenza intento a pulirsi le mani con la carta: “Dannati bagni senza piastrelle. Non si capisce quali sono quelli per i maschi, dovrebbero farli rosa per le femmine e azzurri per noi.” Disse tra sé, Novembre ne approfittò ancora: “Visto?” Disse a Barbara indicando il ragazzo. La bella ereditiera sbuffò: “Hey tu, giovane, chi sei?” Il ragazzo assorto nei sui pensieri, tornò alla realtà ed esclamò: “Signore Gesù!”, “Non è possibile, mi risulta sia morto più di duemila anni fa. Dai, dimmi chi sei.” Novembre si morse la lingua: “Si… Emmm… Mi chiamo Fernando Cane. Sono uno stagista. Mi scusi ma credevo di essere solo qui.”, “Come un cane… Direi.” Aggiunse Barbara. Novembre rise: “Allora Cane a quanto pare non c’è nessuno a lavorare oggi, a parte te. Come mai?” Cane si trovò in imbarazzo: “Beh, sua signoria… L’amm… L… L’amministratore delegato Galliani, ci ha dato… Ci… Ci ha dato tre giorni di ferie pagate. Voleva festeggiare con tutti l’essere riuscito a fare la pipì centrando la tazza.”, Barbara alzò lo sguardo mordendosi il labbrò: “Santo cielo…”, “Co… Comunque non sono del tutto solo, non nel palazzo almeno. A… Al… Al piano di sotto infatti c’è la donna delle pulizie, la signora Porco.” Barbara rimase un momento interdetta poi si voltò verso Novembre: “Ma allora è vero che qui assumiamo cani e porci!” Tornò a rivolgersi a Cane: “E come mai tu sei rimasto qui?”, “L… L’amministratore de… Delegato mi ha detto che… Che dovevo… Dovevo rimanere qui a riceverla nel caso lei fo… Fosse arrivata. Bene emmm… Eccomi qui… Emmm… Be… Bentornata amministratrice delegata… Emmm…” Barbara Berlusconi si avvicinò al ragazzo il quale si mise a tremare di terrore. Quel che l’amministratrice disse fu in tono calmo e deciso, chiaro e ben scandito: “Bentornata un emerito cazzo.” Poi s’infilò con passo spedito nel suo ufficio sbattendo la porta. Novembre e Cane rimasero in corridoio, dopo dieci lunghissimi secondi di silenzio, parlarono quasi simultaneamente: “Cafferino?”, “Si volentieri, grazie.” Ed uscirono.
Barbara prese il telefono: “Papà… Ciao sono tua figlia. No non quella, l’altra. No, l’altra. No, l’altra. No, neanche quella… No, l’altra ancora… No… No… Fuochino, fuchino… Cazzo papà sono Barbara! Eeeeh alleluia!” Prese a camminare nervosamente per l’ufficio: “Papà non so più cosa fare con Adriano. Mi sta mettendo ai margini capisci? Già non mi va giù ‘sta cosa che lui ha un trono, una sala del trono, un Pellegatti da compagnia, io invece solo un ufficio e Novembre che mi sta attaccato alle palle… Si papà ho detto Barbara! Attaccato alle palle è un modo di dire figurato!” Si sedette, stanca: “Non so papà… Credo di non essere in grado di reggere il confronto. Nonostante mi sforzi per migliorare le cose finisco sempre per scontrarmi con lui e la sua pletoria di appecorinati. Papà riprenditi! Non sto parlando dei party a casa tua! Appecorinati è un altro modo di dire!” Si alzò in piedi e pestò un pugno sul tavolo: “Galliani fa e disfa come gli pare! Ha potere su tutto e tutti! E io voglio quel potere! Voglio il trono papà! Il trono!” Rimase un secondo in silenzio, inebetita, si lasciò cadere sulla sedia, la faccia stanca: “Ho detto trono, papà. Non trombo. Trono…”
Silvio Berlusconi era in esilio a Cesano Boscone. Quando don Arnaboldo lo trovò era in cortile, stava urlando al cellulare: “Trombo? Hai detto trombo? Barbara? Pronto? Marina? Piersilvio? Francesco? Carla? Giada? Laura? Mirella? Alberto? Sergio? Iolanda? Pronto?! Pronto?!” Spense il cellulare e lo mise in tasca: “In questo posto non si prende un ca… Oh don Arnaboldo, che piacere, mi stava cercando?” Don Arnaboldo finse di non aver visto né sentito nulla, deglutì ed espose il sorriso più accettabile che potesse fare: “Certo Silvio, sono le tredici e trenta, è l’ora della preghiera post pranzo.” Berlusconi sbuffò: “Maddai! Ancora preghiere! Non ne posso più! Si prega la mattina appena svegli, a colazione, dopo colazione, mentre facciamo giardinaggio, mentre facciamo il bagno ai miei coetanei, mentre spazziamo per terra, prima di pranzo, durante il pranzo, dopo pranzo… Questo esilio è un’inferno!”, “Ma se sei qui solo da stamattina?! E poi non pronunciare quel… Quel luogo qui dentro!” Berlusconi si guardò attorno, incrociò gli occhi dei poliziotti che lo tenevano sotto sorveglianza, sorrise loro come meglio potè, poi tornò a parlare col don: “Senta ma… Visto chi sono, anzi… Chi ero. Visto che in ogni caso sarei un uomo di una certa importanza, nonché di una certa età, non si potrebbe avere un po’ di clemenza da parte sua? E mi chiuda un occhio per piacere, su…”, “Lo farei davvero volentieri credimi, chiuderti un occhio, anche entrambi… Ma ahime sono un uomo di chiesa. In ogni caso no, sei stato mandato qui per espiare i tuoi peccati e tanto farai. Coraggio, è tardi, seguimi nella chiesetta a pregare che poi c’è da pulire la stalla.”
La chiesetta era già piena di fedeli pronti a pregare. Berlusconi scelse un posto appartato, il più lontano possibile da don Arnaboldo, possibilmente anche lontano da tutti gli altri. Don Treccani, il più vecchio e saggio di tutti li dentro, prese la parola dall’alto dello scranno: “Fratelli. Inginocchiatevi, congiungete le vostre mani e abbassate il capo. Preghiamo tutti insieme.” A quel punto un cellulare squillò: “Silvio! Per l’amor di Dio!” Berlusconi si alzò in piedi, nessuno notò la differenza, e sorrise: “Chiedo scusa… È importante, devo rispondere.” Don Treccani alzò le braccia al cielo: “Signore perdonalo per questa mancaza di rispet… Oddio, avesse fatto solo questo finora…” Tornò a rivolgersi a Berlusconi: “E va bene. Rispondi… Ma esci di qui almeno.” Berlusconi ringraziò e uscì. La sua voce da fuori in cortile si sentiva in ogni caso all’interno della chiesetta. I fedeli e i don presero a far finta di pregare, tutti alla fine avevano un orecchio se non due rivolti all’esterno. Anche don Treccani: “Ueh Ariedo! Ma quanto tempo! Come vanno le cose li? Ma come dove? Al Milan… Ah… Non lavori più al Milan? Ma da quando? Ah si? Vabbè dai, magari troverai qualcosa di meglio. Se vuoi appena mi libero di questi quattro rompicoglioni in tunica qui, vengo in via Turati e ci… Ah… Non è più in via Turati? Ma dove si trova ora? Non dirmi a Cesano Boscone ti prego! Dove?! Via Aldo Rossi?! E dove ca… Non la trovi neanche te? Ma il navigatore cosa dice? Ti trova solo via Pellegrino Rossi? Ah ecco… Bene. Già non ci vado mai, poi se mi giro un attimo e me la spostano anche. Figurati… Va bene che adesso son qui insieme a ‘sti quattro beduini… Ma prima o poi torno. Mi piacerebbe sapere DOVE tornare almeno! Ma senti… Dimmi un po’, prima ho parlato con qualcuno dei miei figli, non ricordo di che cucciolata, mi è parso di capire che ci siano problemi li. Ah già certo… Cosa ne sai te che sono anni che non ti caga nessuno… Giustamente, scusa Ariedo. Sai me la passo male insieme a sti quattro ratti che non fanno altro che pregare. Ho tanti di quei pensieri al momento che… Ma dimmi, magari questa la sai, ho sentito parlare di giochi di potere… Di un trono… Ma cos’è questa roba qui? Ah… Ah-ah… Si… Ah, hai capito? Ah-ah… Si, si. Tutto chiaro. No, così non va bene eh… Adesso mi sono rotto le balle, mollo ‘sti quattro vecchi catorci con la papalina e vengo li in sede a sistemare le cose. Ovunque essa sia. Come dici? Maggior impegno? Presenza? Ah… Soldi pure? Ma sai che ti dico che qui a Cesano alla fin fine si sta bene? Poi questi quattro rincoglioniti mi stanno pure simpatici, quasi quasi rimango in esilio ancora una decina di… No, no che mesi? Anni! Ci si sente Ariedo eh! Sempre in gamba! Tante buone cose! Ciao ciao!”
Quando Berlusconi rientrò nella chiesetta le facce che lo accolsero non avevano nulla di amichevole: “Sarà una lunga giornata.” Si disse, sorrise e aggiunse: “Almeno non ho niente a che fare col Milan!” Così dicendo chiuse le porte dietro di sé.
“Dis is de taaaaim tu rimembor, cosiuill no las forevo, dis ar de deeei tu ollon tu…”
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