Una partita, un calcio, il destino di una nazione

zorroSe vi capita di passare per Zagabria e vi fate una passeggiata per il parco Maksimir, mentre sorseggiate una pivo ghiacciata tra le fronde, buttate un occhio allo stadio dall’altro lato della strada, guardate la storia, quella triste, ma storia con la S maiuscola.

Un giorno il Maksimir è stato l’incidente nel Golfo del Tonchino, la strada di Sarajevo in cui Gavrilo Princip attendeva l’auto di Francesco Ferdinando, insomma la scintilla su una brace che covava già da tempo.

E’ il 13 maggio del 1990, e al Maksimir Stadion si deve giocare Dinamo Zagabria-Stella Rossa di Belgrado, big match della vecchia prima divisione iugoslava, negli anni in cui , beffardamente, fiorisce la migliore generazione calcistica di sempre di quel paese. Ma quel giorno di calcio si parlerà ben poco.

Da anni la Iugoslavia, per molti soloni al di qua della cortina patria del comunismo dal volto umano, libero dal grigio guinzaglio di Mosca, mostra crepe sulla sua patina superficiale, crepe nate già un minuto dopo la sepoltura del maresciallo Tito, padre-padrone di quell’utopia, o forse ipocrisia politica.

I tempi cominciano ad essere pericolosamente maturi, e quella non è una semplice partita di calcio.

Lo sa bene il capo degli ultrà della Stella Rossa, giunto a Zagabria alla testa di tremila tifosi;

Željko Ražnatović, uno che il Novecento si porterà via col nome di Arkan, riponendo lui e le sue Tigri in quel cassetto, rigorosamente chiuso a chiave, in cui conserva sinistri nomi quali Himmler e le sue SS, o Pol Pot e i suoi Khmer rossi.

Lo sa meglio di tutti Slobodan Milosevic, ultimo ras di Belgrado: sa benissimo che, se quel paese continuerà ad esistere, non sarà più il paese dei tanti popoli sotto un’unica bandiera, ma di tanti popoli sotto il giogo di un solo popolo, quello serbo.

Nulla è lasciato al caso dunque: i poliziotti in tenuta antisommossa allo stadio sono, per la stragrande maggioranza, serbi; se sarà battaglia, dovrà essere chiaro al popolo croato da quale parte si schiererà l’ordine costituito.

E guerra è: l’atmosfera è elettrica, le provocazioni sugli spalti immediate, il “prego, accomodatevi” della polizia agli ultrà di Belgrado fin troppo palese.

Il tema calcistico, quel giorno, finisce lì, non inizia nemmeno.

E dire che, quella iugoslava di fine anni ‘80, è una generazione di straordinari talenti. Due i giocatori che ci interessano, da una parte e dall’altra; due anni di differenza l’uno dall’altro, posizione simile in campo, due modi radicalmente differenti d’interpretarla: genio puro, pur discontinuo, con un sinistro dai picchi maradoniani l’uno, un’accademia di classe ed intelligenza calcistica l’altro.

Avete capito che stiamo parlando di Dejan Savicevic e Zvonimir Boban.

Uno a Belgrado è già Dio, un Dio che può entrare senza invito nei locali frequentati dalla nomenklatura, quei locali che scimmiottano l’Occidente tanto vituperato pubblicamente, un Dio la cui chiesa di seguaci celebrerà il suo giubileo un anno e mezzo dopo a Bari, nell’unico, per forza di cose ultimo, trionfo di un club iugoslavo in Coppa dei Campioni.

L’altro assaggia la massima divisione già a sedici anni, a diciannove è capitano e leader indiscusso della sua Dinamo, a ventidue è uno dei giovani più ambiti dall’intera Europa calcistica.

I due si ritroveranno due anni e mezzo dopo al Milan, un Milan talmente stellare che, un po’ per il dominio tecnico del trio olandese ancora in corso, un po’ per le regole dell’epoca molto più rigide sugli stranieri in campo, li relegherà ad una stagione da ospiti più o meno fissi della tribuna, la stagione 92-93.

La Stella Rossa dall’inferno del Maksimir fugge a bordo di un elicottero militare, in puro stile ultimi americani a Saigon.

Molti giocatori della Dinamo rimangono sul campo, intrappolati in uno scontro che ha abbandonato le gradinate per trasferirsi sul prato. Boban è lì in mezzo, frastornato, con ancora su la sua maglietta numero dieci, la rabbia per la violenza indiscriminata della polizia monta; ad un certo punto non ci vede più: schermaglia con un poliziotto, si allontana un momento, poi ci ripensa, rincorsa, salto e calcione deciso, sbirro a terra.

E’ il 1990, l’era degli smartphone, delle foto e dei video postati in tempo zero sui social network o su Youtube è ancora fantascienza.

Ma quel calcio ci impiega poco ad uscire dallo stadio,  nel giro di un giorno, un giorno e mezzo,  tutti sanno quel che ha fatto. Zvonimir, in quell’istante, è lo studente cinese davanti al carro armato in Tien-an-men, è il vietnamita che prende a calci l’ultimo ufficiale della colonna francese in ritirata a Dien Bien Phu, è un eroe per la sua gente.

 In quel momento i campanilismi Hajduk-Dinamo stanno a zero, non contano le barzellette che girano nella capitale sulla gente d’Istria, della costa, in quel momento nasce un paese, nel cuore di tutti inizia ad esistere anni prima dell’esistenza su di una cartina geografica.

La pagherà, eccome se la pagherà: un linciaggio scampato all’ultimo, una squalifica di nove mesi dalle competizioni con conseguente addio alla partecipazione ai mondiali di Italia 90.

Poco male: una rappresentativa nazionale iugoslava, se pur notevole dal punto di vista sportivo, da tutti gli altri era ormai una barzelletta, una barzelletta a cui la UEFA porrà fine prima degli europei di Svezia di due anni dopo, regalando alla Danimarca una favola da raccontare in eterno.

Quel che seguirà fuori dal campo negli anni a venire, sarà uno dei conflitti più sanguinosi in un secolo di macellerie come il Ventesimo. Nomi come Mostar, Vukovar, Srebrenica, verranno richiusi a chiave in un altro cassetto accanto a Ypres, Stalingrado, Auschwitz, Hiroshima.

La storia di loro due al Milan, in quegli anni, è una storia grande, una storia di coppe e di scudetti.

Sono colleghi, compagni di squadra, amici, il rispetto tra di loro è enorme.

Eppure,in una delle rare volte in cui si riesce a strappar loro un’opinione su ciò che sta accadendo nella loro terra, un’intervista  alla vigilia di una gara di Champions League ad Oporto nel 1994, quel “tutti adesso si indignano perché i serbi stanno attaccando Gorazde, ma quando i croati facevano lo stesso con Mostar nessuno ha aperto bocca, nessuno li ha accusati” da una parte, e “è noto che Savicevic di tutto quello che succede nella ex Jugoslavia non capisce niente. Non siamo mai andati d’ accordo, su questo argomento”, dimostra come per questi due ragazzi, se non fossero stati così bravi nel loro mestiere, quel solco scavato da un ‘intervista, sarebbe potuto tramutarsi in una cinquantina di metri di distanza tra i due, a difendere o cercare di conquistare un insignificante villaggio, un’illusoria linea di confine, un’assurda pretesta di superiorità etnica.

Dejan ora, da serbo, è diventato montenegrino, nell’ultima, per fortuna pacifica, frammentazione balcanica. E’ stato C.T. della Serbia ma non ha funzionato, troppo matto lui; si accontenta di essere presidente della Federcalcio montenegrina e, più in generale, massima divinità della storia sportiva dello staterello mediterraneo. Personalmente, se si rimettesse gli scarpini e i parastinchi per una gara di beneficenza o per una partitella tra amici, per rivedere quel sinistro che un minuto ti faceva smoccolare, e un minuto dopo ti portava in paradiso, sarei disposto a spendere cifre che non tirerei fuori per vedere l’attuale Milan dal vivo.

Zvone lo vediamo tutti i sabati e le domeniche su Sky, è uno dei pochi che, nel mondo delle tv sportive, non usurpi il nome di esperto. Franco al limite della crudeltà nei confronti delle magagne del suo, nostro, amatissimo Milan, impeccabile nel vestire, elegante nel parlare.

Eppure sono convinto che, se fosse costretto a dire tutta la verità e nient’altro che la verità, e dovesse raccontare il momento più intenso della sua vita fino ad oggi, per un momento svanirebbero la cavalcata fino alle semifinali a Francia 98 o la lezione di calcio magistrale al Barcellona del 94, e la sua risposta inizierebbe più o meno così: “Una volta, presi a calci un poliziotto…”

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