Discriminazione 2.0

Bizzarra al limite del paradosso è la situazione di un club in cui convivono calciatori schierati in prima linea nella lotta al razzismo ed una curva ripetutamente chiusa per discriminazione territoriale, reato la cui commissione non è più idiota dell’introduzione. Altrettanto bizzarra è la situazione di un club sanzionato per ben 11 volte nelle ultime stagioni per cori razzisti, il quale schiera un discreto numero di giocatori di colore, bersagliati dagli ultras di altre squadre le cui curve sono state chiuse.

Il fenomeno del razzismo nel mondo del calcio non è certamente una novità. E’ invece una novità il clamore che lo stesso sta sollevando, che complica terribilmente l’individuazione della sua reale dimensione nonché degli strumenti più idonei a risolverlo. Così, in un clima di caos e pressapochismo, tanti piccoli Galeno prescrivono la prima terapia che gli viene in mente, lasciando lo spettatore che non voglia nascondersi dietro l’esile dito del luogo comune pervaso da mille perplessità: le curve italiane hanno veramente un problema di razzismo? La ribellione dei calciatori è dettata dalla voglia di cambiamento o da manie di protagonismo? Il pugno duro della FIGC può produrre risultati apprezzabili?

Alcuni politici lanciano slogan fortemente improntati all’intolleranza razziale quando sentono la necessità di serrare le fila del proprio elettorato. E’ quindi inoppugnabile che il cancro del razzismo affligga ancora una parte significativa della medesima popolazione di cui la curva è un sottoinsieme. La discrasia di opinioni che circonda l’argomento è la cartina tornasole di una società fortemente polarizzata nelle posizioni antitetiche del cittadino del mondo, perfettamente integrato con persone di ogni etnia con cui ride delle rispettive diversità, e dell’irriducibile nazionalista tuttora convinto che i negri non abbiano l’anima.

Nonostante questo clima, se non un grosso errore, è quantomeno molto superficiale catalogare tutti i buh che la curva indirizza a calciatori di colore come razzismo. Il tifo adotta da sempre ogni pretesto per schernire o intimorire l’avversario, senza esclusione di qualsivoglia maleducazione o inopportunità, giungendo perfino ad offendere i defunti. Strategia che giunge al culmine quando l’avversario è molto antipatico, o molto forte, il che lo rende comunque antipatico. Atteggiamento da censurare senza se e senza ma. Tuttavia, quegli stessi tifosi adottano ogni pretesto per sostenere i propri beniamini, anche se di colore.

Esiste quindi il rischio di catalogare superficialmente come razzismo una semplice e lecita avversione sportiva, magari lasciando scorrere nell’indifferenza fatti ben più gravi che accadono a telecamere spente come le minacce al presidente del Verona per il possibile acquisto di Patrick M’boma. Questa è la vera discriminazione, non le rose di Eto’o, che hanno strappato un sorriso anche al moralizzatore con l’indice puntato.

In definitiva, le curve italiane hanno un problema di razzismo? Alcune sicuramente si. E’ ora di trovare una soluzione al problema? Sicuramente si. L’elemento rivelatore sono i cori? No. Direi proprio di no. Ma evidentemente secondo altri si.

In primis i calciatori, che ad una prima analisi parrebbero ben più saggi dei loro supporters, perpetrando un’autentica ribellione contro una discriminazione che lede la dignità umana e per la quale non esiste stipendio ad n zeri che costituisca una valida contropartita. Discriminazione razziale, si intende, non chiediamo loro di esplicitare il loro pensiero sugli omosessuali..

Ma la discriminazione è un fenomeno sociale, non personale. Se è salito alla ribalta dopo il plateale gesto di Boateng, è disarmante ed avvilente la rapidità con cui è caduto nel dimenticatoio quello ben più coraggioso di Marc Zoro, tra i primi a ribellarsi in maniera eclatante con una rimostranza applaudita da tutti e ben presto rivelatasi vana. Dov’erano i tanti indignati che oggi cadono improvvisamente dal pero? E dov’erano gli altri calciatori di colore? Zoro non era nero? O forse non era popolare?

E ancora quale dovrebbe essere il processo cognitivo che induce un calciatore di colore abitualmente oggetto di ululati e fischi a twittare provocazioni indirizzate alla curva avversaria prima di un match? Come dovrebbe fare il medesimo a discernere il fischio conseguente la propria coglionaggine da quello di origine razziale? No, mi dispiace, ma per quanto mi riguarda la ribellione dei calciatori è poco credibile.

I calciatori, assieme alla FIGC, hanno il merito di aver sollevato la questione, ma il demerito di aver tentato di porvi rimedio con misure che rischiano, nella migliore delle ipotesi, di rivelarsi inefficaci. E nella peggiore di fare danni immani.

Il pugno duro azionato dalla FIGC rischia seriamente di tornare al mittente. Interventi di natura amministrativa non possono “raddrizzare” il malcostume insito nella cultura di una società. Affidarsi ad uno strumento medioevale come il giro di chiave, che non ha prodotto alcun risultato apprezzabile contro altri fenomeni altrettanto gravi come la violenza, non sembra una mossa geniale. La giustizia sommaria ed indiscriminata viene percepita dalla collettività come un atto arrogante ed iniquo, finendo per rivelarsi un boomerang. Quel che è peggio, è il rischio di gettare ombre sinistre proprio sul nobile obiettivo che si intende perseguire e che dovrebbe rappresentare uno dei punti cardine dell’educazione civica di ciascuno.

Calciatori e FIGC possono fare qualcosa, ma per risolvere il problema serve altro. La discriminazione deve essere combattuta da parte di ciascuno nella vita di tutti i giorni, anche senza gesti da prima pagina e senza cadere nel cieco bigottismo che punta il dito contro le rose di Eto’o. E’ la strada più lunga e difficile ma è l’unica che porta ad una società civile ed integrata, in cui non serve imbavagliare la curva che ne è sottoinsieme.

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