Sei minuti di silenzio

Istanbul.

Pronunciare il nome di questa città meravigliosa, la “porta” che dà l’ingresso al suggestivo mondo orientale, ormai mi fa male da otto lunghi anni. Era il 25 maggio del 2005, finale di Champions League Milan- Liverpool.

Dopo una cavalcata sontuosa, una squadra quasi perfetta, un gruppo consapevole della propria forza, ci meritavamo quella coppa più di chiunque altro. Dominare gli inglesi sul piano del gioco, segnare dopo 52 secondi il gol del vantaggio con un tiro assurdo di Capitan Maldini, tenere sotto controllo gli affondi degli avversari.

Era nostra, era fatta. Poi quel vuoto totale durato solo 6 minuti. Sei stramaledettissimi minuti in cui prendemmo la coppa e la buttammo nel cesso. No cazzo, non si fa così! Poi quel gol mangiato da Sheva allo scadere dei supplementari sancì la fine dei sogni: in quel momento capii che non l’avremmo mai vinta.

Ancora oggi non riesco a riguardare quei fottutissimi rigori, e quel tale dal nome Dudek vorrei un giorno incontrarlo per strada e con un Supersantos menargli una mina in pieno viso, così poi vediamo se saltella sulla linea.

Ok, poi ce la siamo ripresa dopo soli due anni, ma quella coppa doveva essere nostra. Anzi, azzardo a dire che simbolicamente chi vinse quell’edizione non fu il Liverpool, ma il Milan.

Provate a contraddire una tifosa ancora incazzata dopo otto anni. Ah Carletto, non ce l’ho con te. Quella sera ho capito che nel calcio molte volte si prescinde dalla logica.

E tu cara Istanbul, cittá dei colori, delle spezie, dei mosaici, e bla bla bla, non mi vedrai mai.

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