Vi ricordate di Borgo Tre case?
Era il paesello fittizio, annegato nelle campagna lombarda, in cui il buon Artemio, alias Renatone Pozzetto, guidava un felice corteo di anziani contadini a vedere la suprema attrazione in voga da quelle parti: guardare il treno che passava…
Il film era “Il ragazzo di campagna” e voi avete sicuramente riso di quella scena, e per questo siete stati rimbrottati dal compagno di banco del liceo, quello impegnato e munito di kefiah e capello ribelle d’ordinanza, che per salvarvi dall’abisso d’ignoranza vi proponeva la sua pellicola alternativa: un imperdibile capolavoro che segnava il passaggio dal bianco e nero al colore nella cinematografia polacca…
Bene, il vostro compagno di banco era ed è rimasto un cretino.
Ora ha abbandonato la posa politico-intellettuale in nome di un I-Phone 5, è diventato hipster per riciclare i cardigan di suo nonno e aggiungere un po’ di barba a quella calvizie avanzante, ma soprattutto non ha ancora capito il fondamentale messaggio sotteso a quella scena madre: togli ad una comunità, ad un ambito di qualsiasi tipo, fatti rilevanti e motivi validi per cui discutere, e i contenuti intellettuali della medesima comunità declineranno inesorabilmente verso il nulla.
In un paese che va alle partite di calcio come alla guerra (citazione di uno statista inglese col quale il nostro presidente condivide giusto l’altezza…), ad un simile effetto non poteva sottrarsi il mondo del giornalismo sportivo.
C’è stata un’epoca in cui erano talmente tanti e corposi gli argomenti a disposizione, che scrivere di pallone e risultare interessanti e credibili era sin troppo facile.
C’è stata, ma è terminata. E allora che si fa?
Si fa finta di nulla e si va avanti…
Un tempo c’era un quotidiano che, se dava un’indiscrezione di mercato, significava che stavano ormai alle firme e il giorno dopo già ci sarebbe stata la foto del tizio con la sciarpa del suo nuovo club. Ce n’era un altro che sparava cazzate di mercato per 365 giorni all’anno…
Ora i due quotidiani si distinguono solo per il colore dell’uno, e per la reiterazione della parola Juve dell’altro.
Un tempo Gabriel Batistuta era il centravanti della settima squadra della serie A, simbolo amato dalla sua città ancora di più di quella statuetta col bigolo minuscolo.
Ora Batistuta sarebbe il miglior attaccante del campionato, e la prima squadra della serie A faticherebbe a trattenerlo in Italia.
Un tempo i Sacchi e i Capello venivano definiti folli o yes-men prima, per poi guadagnarsi gli elogi del caso con fatti e trofei.
Ora i Leonardo e gli Stramaccioni vengono elogiati prima, giusto per elementi fondamentali quali giovane età, poliglottismo o bell’aspetto, salvo domandarsi a posteriori se siano in grado di allenare una squadra di calcio.
Un tempo, metà dei calciatori del nord-Italia, si ritrovava nei locali di Milano la domenica sera.
Ora fanno la stessa cosa, ma se lì in mezzo c’è quello nero che si veste strano, sarà opportuna una bella reprimenda sul pessimo esempio che dà ai suoi coetanei.
Un tempo il termine abatino trovava una platea sufficientemente attrezzata per coglierne la sottigliezza.
Ora, a chi legge e guarda, si somministrano dosi da cavallo di “incredibile!”, “clamoroso!”, “sciabolata!”, o l’evergreen “Cccannavaroooo!”.
Un tempo l’Italia si divideva tra Rivera e Mazzola, o tra Baggio, Mancini e Zola.
Ora è possibile scrivere che là dove c’era Rivera, ora c’è il Giaccherini, e lo si può fare senza il carico d’ironia doveroso quando si indichi su una mensola un Tavernello, là dove prima era posata una bottiglia di Chateau Lafite del 1869.
Un tempo Andrea Pirlo, quando era il miglior regista al mondo per distacco, scivolava quasi inosservato in mezzo a compagni più celebrati di una squadra che vinceva Coppe dei Campioni e Palloni d’oro.
Ora lo stesso Andrea Pirlo, solo più vecchio e declinante, viene considerato degno sfidante per lo stesso Pallone d’oro di uno che fa quasi cento gol in un anno solare, e tutto per un rigore tirato a cucchiaio.
Un tempo i giovani Del Piero e Shevchenko potevano essere panchinari ogni tanto, anche questo faceva parte del processo di crescita.
Ora ,dietro ad una panchina per El-Shaarawy, ci sono risse furibonde con Allegri e, of course, l’interessamento di City, United, dei Lakers e della Merril Lynch.
Un tempo si certificava l’acquisto di top club italiani a cose fatte, senza immaginare dove si sarebbero spinti i futuri limiti di un Berlusca o di un Moratti.
Ora basta un arabo che esca dalla portina del 3 di via Turati, o una Rosneft che accorra in aiuto di un’agonizzante Saras, per disegnare futuri scenari ricolmi di Iniesta o di Aguero, e scintillanti stadi nuovi da milioni di rubli o petrodollari, facendo oscene zuppe tra calcio e finanza.
Un tempo, certe penne del giornalismo sportivo, parevano un’ingiusta sottrazione alla letteratura.
Ora alcune firme sportive parrebbero un oltraggio anche all’agricoltura.
Un tempo parlare e scrivere di questo sport era una roba seria.
Ora che fanno gli eredi di Brera?
Ovvio: guidano un gruppo di smarriti appassionati , tutti muniti di cadrega al seguito, e li portano in quel campo a vedere il treno che passa…perché il treno è sempre il treno.
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